8.1.12

FEDE E SCIENZA

Il libro pubblicato da Einaudi col titolo La dimensione umana e le sfide della scienza,nel quale si riproduce il  dialogo tra Edoardo Boncinelli, biologo molecolare, e Umberto Galimberti, filosofo, inizia con la risposta alla domanda su quale sia stata la scoperta più importante del Novecento. Boncinelli opta per l'automobile, Galimberti per la bomba atomica. Già qui si intravede la mentalità aperta, ottimista, positivamente orientata verso il fenomeno-vita di Boncinelli, e il pensiero oppressivo, cupo, ostinatamente chiuso nella monotona ripetizione dell'assunto fondamentale da parte di Galimberti, secondo cui la tecnica, da strumento nelle mani dell'uomo, è diventata oggi l'onnipotente padrona che sottomette ogni cosa. Ma perché un credente dovrebbe interessarsi a questo dialogo? Per l'importanza che la religione vi gioca, un'importanza che sembra emergere al di là delle intenzioni dei due interlocutori. In questo libretto, piccolo monumento del laicismo nostrano, le affermazioni contro la religione in sé, il cattolicesimo e il Papa sono abbondanti. Galimberti più di una volta esibisce un autentico disprezzo: "Il Papa dice cose banali"; "la religione cattolica si occupa solo di sesso"; "la Chiesa fonda se stessa sulla negazione dell'uso della ragione", affermazioni che peraltro non sorprendono più di tanto in chi sostiene che "il connotato originale dell'uomo è l'aggressività" e "il nostro originario è la follia". Anche Boncinelli ci mette talora del suo, come quando dice, con chiaro riferimento al cattolicesimo, "la sacralità della vita, altro concetto che non significa nulla". Ma, a parte il fatto già in sé molto significativo che un filosofo ateo e un biologo molecolare dedichino tanto spazio alla religione - a dimostrazione di come la religione rimane un interlocutore imprescindibile in ogni dibattito sull'uomo e sulla sua vita - sono soprattutto alcune affermazioni di Boncinelli a interessare positivamente il credente. Entrambi gli interlocutori guardano alla religione come risposta al senso della vita. Ma mentre Galimberti vede nella categoria del senso "una categoria fideista che non riguarda neppure tutti gli uomini ma solamente noi occidentali", Boncinelli, scopritore dei geni che controllano la moltiplicazione delle cellule nervose nella corteccia cerebrale, dichiara che il nostro cervello "non può fare il proprio lavoro se non trova un senso per ogni passo della propria elaborazione... Ha una necessità biologica di trovare le cause e il senso". È per questo che "la domanda numero uno di ogni essere umano è: che ci faccio, io, qui?", interrogativo esistenziale di importanza decisiva dato che "il nostro cervello non può funzionare se non si pone il più spesso possibile tale genere di domande". Questa fondazione biologica del bisogno di senso è la base su cui lo scienziato confuta la profezia del filosofo sulla fine della religione. Dice Galimberti: "Passata la presente generazione e quella dei nostri figli, entrambe cresciute antropologicamente nell'ipotesi che la vita abbia un senso, non ci sarà più nessuno che chiederà un senso alla vita". Per Boncinelli, al contrario, la religione è insostituibile perché il bisogno di senso è costitutivo dell'uomo: "Per questo la religione non morirà". E se ciò per assurdo dovesse avvenire "la condizione umana peggiorerebbe", perché oltre a soddisfare la tendenza innata dell'uomo a credere, la religione risponde all'esigenza di "medicare una ferita", la ferita delle ingiustizie di cui il mondo è ricolmo. Ne viene che, se "l'uomo in fondo è una verruca sul naso dell'universo" - come afferma nella prima parte del dialogo lo stesso - si tratta di una verruca del tutto particolare, necessitata dalla sua stessa struttura biologica a cercare il senso ultimo di sé, oltre la dimensione del mondo sensibile. Già lo scriveva Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus del 1921: "Il senso del mondo deve essere fuori di esso". Ma mentre a quel tempo la biologia era apertamente contraria a tale prospettiva, ora essa stessa contribuisce alla sua fondazione.

quadro di Giuseppe Biasi