Due domande sulla carità
Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo incompleto e insufficiente.
Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo ordinamento. La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune, così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere. La fede serve a purificare la ragione, perché possa vedere e decidere correttamente. È compito allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo senso – senza fare essa stessa politica – la Chiesa partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.
Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia, l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla giustizia. In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio.
(dalla presentazione della “Deus Caritas Est” scritta dal papa Benedetto XVI per il numero 6/2006 di Famiglia Cristiana - seconda parte)
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