27.6.08

INTERMINABILE RIVALITÀ FRA DUBBIO E FEDE, FRA TENTAZIONE E CERTEZZA


Chi oggi tenti di parlare della fede cristiana, di fronte a persone che per professione o per convenzione non hanno familiarità col pensiero e col linguaggio ecclesiale, avvertirà ben presto quanto sia ostica e sconcertante tale impresa. Avrà probabilmente subito la sensazione che la sua posizione sia descritta per filo e per segno nel noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard, recentemente ripreso in forma stringata da Harvey Cox nel suo libro La città secolare.
La storiella narra di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiamare aiuto nel villaggio vicino, oltretutto perché c’era pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere; tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto di una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacchè il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda…La commedia continuò così finchè il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme.
Io propenderei a dire che la teologia effettivamente ripulita e rivestita di moderni abiti civili, così come in molti luoghi essa oggi si affaccia alla ribalta, fa ugualmente apparire questa speranza come ingenua. Una cosa è senz’altro vera: chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio, oppure addirittura un risuscitato da un vetusto sarcofago, che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi, e pertanto nell’impossibilità di comprendere gli uomini dell’epoca nostra e di essere compreso da loro.
Allorché, però, colui che tenta di annunciare la fede possiede un sufficiente senso dell’autocritica, rileva subito come qui non si tratti soltanto di una questione di forma, di una crisi di vestiario in cui si dibatte la teologia. Nella mancanza di mordente da cui è afflitta l’impresa teologica per gli uomini del nostro tempo, colui che sa prendere sul serio il suo impegno constaterà per esperienza non solo la difficoltà presentata dall’interpretazione, ma anche la condizione di insicurezza in cui versa la sua propria fede, la potenza quasi inarginabile dell’incredulità che si oppone alla sua buona volontà di credere. Sicchè, chiunque cerchi oggi onestamente di render conto a se stesso e ad altri della fede cristiana dovrà imparare ad ammettere di non essere soltanto l’uomo mascherato, cui basti solo cambiar d’abito per esser subito in grado di istruire altri con successo. Dovrà invece comprendere che la sua stessa situazione non si distingue da quella degli altri in maniera così radicale , come gli era parso di poter pensare all’inizio. Si accorgerà insomma che in entrambe i gruppi – credenti e non credenti – sono presenti le stesse forze, sia pure con modalità differenti a seconda del campo.
Rileviamo innanzitutto questo: sul credente pesa la minaccia dell’incertezza, che nei momenti della tentazione gli fa duramente e d’improvviso balenare dinanzi agli occhi la fragilità del tutto, il quale ordinariamente gli appare invece tanto ovvio. Penso che qui – nonostante la stranezza della veste esteriore – sia descritta con molta precisione la situazione dell’uomo di fronte al problema di Dio. Nessuno è in grado di porgere agli altri Dio e il suo regno, nemmeno il credente a se stesso. Ma per quanto da ciò possa sentirsi giustificata anche l’incredulità, a essa resta sempre appiccicata addosso l’inquietudine del “forse però è vero”. Il ‘forse’ è l’ineluttabile tentazione alla quale l’uomo non può assolutamente sottrarsi, nella quale anche rifiutando la fede egli deve sperimentarne l’irrefutabilità. In altri termini: tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede, sempre che non cerchino di sfuggire a se stessi e alla verità della loro esistenza. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede; per l’uno la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio.
E’ la struttura fondamentale del destino umano poter trovare la dimensione definitiva dell’esistenza unicamente in questa interminabile rivalità fra dubbio e fede, fra tentazione e certezza. E chissà mai che proprio il dubbio, il quale preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo, non divenga il luogo della comunicazione. Esso, infatti, impedisce ad ambedue gli interlocutori di barricarsi completamente in se stessi, portando il credente a rompere il ghiaccio col dubbioso e il dubbioso ad aprirsi col credente; per il primo rappresenta una partecipazione al destino dell’incredulo, per il secondo una forma sotto cui la fede resta – nonostante tutto – una provocazione permanente. (QUI)