Bisogna leggere le pagine drammatiche in cui il cardinale Giacomo Biffi parla di Dossetti. Non si capisce nulla del travaglio della Chiesa italiana del secondo Novecento senza queste pagine. Il giudizio è tutto sulla sua concezione. In primo luogo sulla sua
presunzione di essere un autodidatta della teologia, pretesa che getta un'ombra su tutto. Poi sulla sua
concezione della politica, che conosce solo tre snodi: l'individuo, il partito e lo Stato. E la società? Quella società in cui gli uomini esprimono la loro concezione della vita e che lo Stato deve servire? Non c'è. È una concezione ideologica di tipo marxiano, con una premessa di spiritualità individualista che non dà forma alla vita. Nella Bologna di Dossetti e di Alberigo, c’era il centro della sinistra intellettuale cattolica, di una lettura tutta secolarizzata del cattolicesimo, che diluisce la fede nella storia, una fede soggettiva che fluisce nella storia senza darle forma, un chiaro esempio di come la concezione protestante sia penetrata anche nel mondo cattolico.
Dossetti era un grande seduttore. E Lercaro, il predecessore di Biffi sulla cattedra di Bologna, ne era stato completamente sedotto. Il dossettismo, pericolosissimo, era arrivato fin nella stanza dei bottoni, a inquinare la sorgente della cultura intellettuale della Chiesa. E lui ha subito visto lucidamente dove stava la sorgente dell'errore: nell'orgogliosa rivendicazione di non avere avuto maestri. Perfino san Tommaso d'Aquino, sottolinea Biffi, dichiara il suo debito verso i suoi maestri.
Non si può essere teologi autodidatti, altrimenti ci si inventa una fede che non è quella della Chiesa. La fede della Chiesa è la tradizione, una tradizione che ci raggiunge attraverso un popolo.
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