30.7.06

LA RICERCA DELLA FELICITA'


Gli americani e i britannici sono arrivati a godere di un’abbondanza materiale senza precedenti. Tuttavia, a partire dagli anni ’70, i livelli di felicità non hanno fatto registrare aumenti sensibili e talvolta sono persino diminuiti. Quindi, gli ulteriori aumenti dei redditi non hanno prodotto un maggiore senso di benessere. In aggiunta, sono sorti numerosi problemi sociali e personali: la separazione familiare, la tossicodipendenza, il crimine, l’insicurezza economica e il calo nel senso di fiducia. Le società liberali consentono ad ogni persona di scegliere come meglio crede per raggiungere la propria realizzazione. La libera società e il libero mercato forniscono all’individuo le condizioni per perseguire la ricchezza e per fare le proprie scelte. Ma le scelte possono essere spesso anche sbagliate o non sempre coerenti e, per di più, l’assunzione di un maggior numero di obiettivi da raggiungere comporta un alto livello d’impegno. Pertanto, l’esercizio della libera scelta richiede autocontrollo e prudenza, qualità che sono sempre più rare nelle società benestanti. Infatti le società di mercato favoriscono la novità e l’innovazione, cosa che invece tende a pregiudicare il valore delle convenzioni, di usi e costumi e delle istituzioni.
Offer sostiene (Avner Offer: “The Challenge of Affluence” - Oxford University Press) che un sistema di mercato tende anche a promuovere la gratificazione immediata, l’individualismo e l’edonismo. E questo fa venir meno l’impegno necessario per ottenere gratificazioni di lungo termine che sono di maggiore soddisfazione e più appaganti anche se più difficili da ottenere. Secondo Offer, un altro elemento che mina la nostra felicità è la sperequazione tra i redditi. Sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, l’ineguaglianza si è aggravata negli ultimi anni e questo è uno degli elementi principali che spiegano la scarsa soddisfazione delle persone per la propria situazione. Le persone che godono di alti redditi, ma vedono che altri hanno realizzato un progresso ancora maggiore, non traggono felicità dal proprio miglioramento. L’amore, il matrimonio e la famiglia costituiscono un altro ambito in cui eventuali fallimenti procurano una minore felicità. Il matrimonio si è indebolito anche a causa di una combinazione di fattori quali la contraccezione, il divorzio unilaterale, la diffusione della convivenza, e le maggiori nascite al di fuori del matrimonio. Anche la maggiore diffusione di una sessualità esplicita e di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio ha indebolito la forza dell’amore e dell’impegno all’interno del vincolo matrimoniale. Il matrimonio, osserva Offer, genera importanti effetti positivi: salute fisica e mentale, longevità, felicità, e numerosi benefici per i figli. Tuttavia, la percentuale delle persone sposate è diminuita e circa un adulto su sette non gode della tutela e dei benefici del matrimonio. Quindi, mentre alcuni propongono modifiche al matrimonio e alla famiglia, sulla base di presunti benefici che deriverebbero da maggiori libertà e spazi di “autorealizzazione”, la gente ne paga le gravi conseguenze. Offer sostiene comunque che la crescita economica non è di per sé negativa. Tuttavia, essa non deve essere messa al primo posto tra le nostre priorità e l’idea che da essa dipenda ogni realizzazione deve essere vista con sospetto. Nelle società già ricche, gli ulteriori sforzi diretti ad aumentare la crescita economica devono essere valutati unitamente ai costi che ciò comporta. Riscoprire le virtù della moderazione e dell’autocontrollo potrebbe essere di grande beneficio per la società. Secondo Offer, quindi, il benessere dipende da quanto siamo in grado di comprendere noi stessi e non meramente da un maggior possesso materiale. (zenit)

29.7.06

Il chestertoniano elogio di limiti e divieti


Il gusto di vivere si nutre delle responsabilità che ci assumiamo, la gioia della libertà è alimentata dal senso del limite che ci siamo posti e l’intensità del piacere dall’autorevolezza del divieto che ci siamo imposti. Chi, in nome della vita, della libertà e del piacere, combatte le responsabilità, i limiti e i divieti, non si rende conto di essere il nemico più pericoloso di ciò che vuole difendere. Poiché si sente così debole da non voler neppure tentare di tenere fede alle regole del gioco, mette subito le mani avanti sbandierando il valore della libertà di cambiarle, di interpretarle, di trasgredirle. A seconda del desiderio del momento o del punto di vista dell’io in quella particolare fase della vita o della storia (e quando si comincia a sezionare in fasi la vita o la storia significa che si avvicina quella “ridanciana tirannide della decadenza che si chiama libertà”).
La convinzione che la libertà significhi soprattutto libertà di vietare e necessità del limite è tema centrale dell’opera di Gilbert Keith Chesterton. Un paradosso “serio”, fertile di sviluppi, sia saggistici che narrativi, ricorrente nelle pagine dei suoi libri. La polemica contro l’“ostinato e folle tentativo di procurarsi il piacere senza pagarne lo scotto” è già presente in uno dei primi scritti, la “Difesa dei voti avventati” (1901). Che si trasforma in un’accusa contro coloro che, seguitando “a blaterare di libertà”, celebrano la licenza di garantirsi, in ogni situazione, una via di fuga, che contrabbandano come nuova frontiera del progresso. E invece “è proprio questa porta secondaria, questa sensazione di avere un rifugio alle spalle che, a nostro avviso, rende sterile il piacere moderno”. L’equivoco è quello di considerare ogni pensiero forte come una minaccia oscurantista e il dubbio come una risorsa di libera affermazione della personalità, la fede e il dogma come castrazione e il relativismo come ventaglio di possibilità a cui attingere per un equilibrato punto di vista sul mondo. (continua)

16.7.06

Salvador Dalì: Bambino geopolitico guarda la nascita dell'uomo nuovo (1943)

9.7.06

Il modo di pensare dei cattolici in stato confusionale


Ecco una sintesi dei principali errori del pensiero “politicamente corretto” diffuso tra i cattolici che si autodefiniscono adulti.

1. L'importante è dialogare: meglio evitare divisioni che dire la verità. Il cattolico "dialogante" ritiene che affermare delle verità oggettive, insegnate dalla Chiesa e confermate dalla ragione umana, sia un atto di prevaricazione, frutto di preconcetti e di posizioni pregiudiziali. La Chiesa deve scendere dalla sua scomoda cattedra, per lasciare il suo posto ai non credenti, che assumono il compito di insegnare la (loro) verità ai cattolici, che brancolano nel buio. Questo tipo umano sogna un Papa che si affacci dalla sua finestra solo per benedire e salutare in molte lingue. Ma che sia muto ogni volta che ci sia di affermare verità scomode e impopolari sulla dottrina della fede e della morale. L'importante è evitare affermazioni apodittiche. E siccome i dieci comandamenti sono quanto di più apodittico si possa immaginare, ecco che si propone di ritirare dal mercato il decalogo, almeno nelle sue prescrizioni più contestate.
2. La verità forse esiste, ma l'uomo non può conoscerla. Per questo cattolico, la Chiesa non può dirimere sempre ogni controversia morale, perché esistono delle "zone grigie", delle aree nebbiose dove la verità non si distingue, e dove la cosa migliore è aprire un dibattito. Quali sono queste zone grigie? Quelle nelle quali si manifesta una diversità di opinioni nella società. Dunque, in una società pluralista e relativista, tutta la vita morale può diventare una sconfinata "zona grigia", riducendo l'autorità della Chiesa al silenzio praticamente su tutto. Saranno da evitare in particolare pronunciamenti su divorzio, aborto, fecondazione artificiale, eutanasia.
3. La verità è un prodotto del dialogo. Per questo genere di cattolici, la verità non preesiste alla discussione. Non è una realtà che c'è, e che l'uomo ha il compito di scoprire con l'auto della Chiesa. No: la verità si rinnova continuamente, grazie alla dialettica: le "parti" esprimono rispettosamente delle posizioni, e così si raggiunge un punto di mediazioni (provvisorio) che costituisce la verità accettabile da tutti in quel momento. Se, ad esempio, uno dice che l'aborto è lecito, e un altro dice che non è lecito, la verità prodotta sarà che l'aborto è un po' lecito: si può fare in certi casi.
4. Anche se sei ignorante, dialoga lo stesso. Per discutere, è buona regola sapere ciò di cui si parla. Ma la foga di dialogare è così forte, in alcuni cattolici, che si va al confronto senza essere preparati. Il tuo interlocutore dice, ad esempio, che l'ootide non è un essere umano? Prendi subito per buona questa solenne corbelleria. Mentre dovresti sapere che dal primo momento della fecondazione in poi il nuovo organismo vivente (anche con due pronuclei, cioè allo stadio di ootide) è caratterizzato da uno sviluppo coordinato, continuo e graduale, che permette di qualificarlo appunto come individuo (umano) e come vivo (A. Serra e R. Colombo, Identità e statuto dell'embrione umano: il contributo della biologia in Pontificia Accademia Pro Vita, Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998). All'ignoranza scientifica si accompagna talvolta un'imbarazzante impreparazione morale: potrà così accadere che si giustifichi l'aborto facendo leva sul principio della legittima difesa; tesi assurda, che implicherebbe attribuire al concepito il ruolo di "ingiusto aggressore"!
5. Bisogna inventare un "cattolicesimo sostenibile". Il cattolicesimo oggi è diventato impresentabile di fronte alla modernità: bisogna aggiornarne gli elementi più scomodi per renderlo sostenibile, un po' come affermano gli ambientalisti di fronte allo sviluppo. La prima regola per questo lifting è astenersi dal giudicare frettolosamente: meglio discutere serenamente per non creare inutili divisioni, e far derivare le regole da ciò che i più pensano e fanno. La sociologia sostituisce la riflessione morale e soppianta la legge naturale. La prassi genera la norma. Per cui, se la gente chiede la fecondazione artificiale, noi gliela dobbiamo dare.
6. Il male non si combatte: si regolamenta. Secondo questo falso cattolicesimo, si può anche riconoscere che una certa condotta sia cattiva. Ma - in base al principio assoluto che si deve dialogare con tutti - bisogna in un certo senso dialogare anche con il male. E scendere a patti con esso. Quindi, le leggi dello Stato non vieteranno l'aborto. Se lo facessero, si creerebbero inutili divisioni. Meglio regolamentare il fenomeno. Così, il male non consiste più nell'atto dell'uccidere il concepito. Il male è l'aborto clandestino (che minaccia la vita delle donne) mentre l'aborto legale diventa "buono", perché fatto secondo le norme dello Stato. Verranno uccisi molti innocenti, è vero; ma sarà salva la pace sociale e il dialogo permanente con tutti i sopravvissuti.
7. Chi compie il male va capito e giustificato. La Chiesa insegna una dottrina esigente e offre insieme un perdono senza limiti da parte di Dio. Invece, per il cattolico del dissenso (dal Papa) il perdono sostituisce la dottrina. Siccome chi commette un male può agire in circostanze molto difficili, allora occorre sospendere il giudizio sulla sua condotta, ed evitare ogni condanna. Questo approccio non ha solo valenze morali - potremmo dire "da confessionale" - ma pretende di avere conseguenze giuridiche e politiche. Esempio: una donna abortisce. Peccato, ma poiché ha vissuto un dramma, come può la società prevedere una pena, anche lieve, per la sua condotta? E ancora: un uomo elimina con l'eutanasia sua moglie. Non è bello. Però, vista la sua sofferenza, quale giudice potrà dichiararlo colpevole? Questo criterio potrà essere applicato ad altre infinite "zone grigie": un uomo scopre che la moglie lo tradisce, e la uccide. Ma in quest'ultimo caso, il cattolico politicamente corretto si dichiarerà inflessibile e per nulla comprensivo, nonostante le "terribili circostanze" in cui il delitto è avvenuto. (Il timone)

Pieter Bruegel - I mietitori (1865)

8.7.06

La famiglia


La Costituzione italiana definisce la famiglia «una società naturale fondata sul matrimonio». Parole sacrosante, a patto che si capisca che "naturale" non significa "comunemente diffusa", o "statisticamente dominante". Quando parliamo di famiglia naturale, di società naturale, parliamo di istituzioni che rispondono alla natura dell'uomo, che interpretano cioè la più profonda essenza dell'essere umano, che rispondono ai più veri desideri del cuore. Proprio per questo loro grande valore, non sono facili da creare e da mantenere in vita: hanno bisogno di un largo consenso culturale e del sostegno della legge. Il matrimonio monogamico eterosessuale con promessa di mutua fedeltà ed assistenza è allo stesso tempo un'istituzione naturale e il frutto di un'evoluzione antropologica molto lunga ed impegnativa. È un'istituzione naturale perché risponde al desiderio umano di amore vero. L'amore vero è dono totale ed esclusivo di sè all'altro e affidamento senza riserve di sè all'altro. Il matrimonio monogamico è la versione istituzionale di questo genere di amore, che non è veramente un genere fra gli altri, ma è l'Amore umano con la A maiuscola. Però il matrimonio monogamico eterosessuale è anche il prodotto di una lunga evoluzione culturale, perché cronologicamente appare molto tardi nella storia dell'umanità, effettivamente dopo l'avvento del cristianesimo, e anche oggi è relativamente raro. I vantaggi sociali della famiglia fondata su questo tipo di matrimonio sono noti: riguardano la posizione della donna nella società e l'educazione dei figli. Nella famiglia poligamica la donna è una proprietà, in quella monogamica è una persona. Nelle società dominate dalle famiglie monoparentali, dove la donna da sola cresce i figli in assenza del padre, che ha rifiutato il matrimonio o ha abbandonato il focolare domestico - una situazione generalizzata nell'Africa urbanizzata e in America latina - i figli crescono con una grande debolezza psicologica e spesso fragilità fisica. Chi ha visto torme di ragazzi di strada nelle grandi città del Kenya, del Camerun e del Perù, sa che sono condannati a una vita di stenti e di precarietà, fatta di soggiorni in prigione, prostituzione, malattie sessualmente trasmissibili, violenze e pestaggi. Non sono il prodotto della povertà: ci sono regioni povere del mondo dove i ragazzi non vivono abbandonati per strada. Sono il prodotto della disintegrazione della famiglia. (Rodolfo Casadei - Tempi)

1.7.06

Preso per matto perché si stupisce di tutto quel che gli altri danno per scontato


In una conferenza tenuta a Toronto nel 1930, su "La cultura e il Pericolo Incombente", Gilbert Keith Chesterton spiegò che il "pericolo incombente" non era il bolscevismo, perché il bolscevismo era stato messo alla prova, e «il miglior sistema di distruggere un'utopia è realizzarla». Non era neppure un'altra guerra mondiale, anche se questa sarebbe scoppiata «quando la Germania farà la stupida sul confine polacco». Il pericolo incombente era «la sovrapproduzione intellettuale, educativa, psicologica, artistica che, insieme alla sovrapproduzione economica, minaccia il benessere della civiltà contemporanea. La gente sarà inondata, accecata, assordata e mentalmente paralizzata da un profluvio di esteriorità, che non le lascerà tempo per il piacere, il pensiero o la creatività».
Contro questo pericolo c'è, sei secoli dopo Dante, un solo rimedio: lo sguardo. «Dammi occhi miracolosi per vedere i miei occhi / questi specchi rotanti che vivono in me / cristallo terribile / più incredibili di tutte le cose che vedono» scrisse GKC in una poesia. Già in un racconto pubblicato sul giornale della scuola aveva narrato di un ragazzo preso per matto dai vicini perché si stupisce di tutto quel che gli altri danno per scontato.
La "conversione" del professor Eames, l'intellettuale pessimista di "Manalive", avviene nel momento in cui la luce dell'alba illumina le cose come fosse il primo mattino del mondo: «E sulla piccola città accademica le cime dei vari edifici presero ciascuna una tinta diversa: qui il sole rilevava lo smalto verde d'una guglia, là i tegoli rossi d'un villino, altrove gli ornamenti d'ottone di qualche bel negozio o le ardesie azzurrognole del tetto aguzzo d'una vecchia chiesa. E queste creste variopinte sembravano aver ciascuna un che d'individuale e di stranamente significativo, come cimieri di cavalieri famosi, in un corteggio o sul campo di battaglia: ciascuna attraeva lo sguardo, e specialmente quel disperato sguardo di Eames, errante sullo spettacolo d'un'aurora che per lui doveva essere l'ultima. Il sole cresceva in una gloria che tutti i cieli erano incapaci di contenere; ma la distesa delle acque si dorava, fluiva e pareva sufficiente alla sete degli dei».
Settant'anni fa quegli occhi si chiudevano; ma le tracce di quello sguardo rimaste nei suoi scritti guidano ancora le pupille di molti a guardare il mondo nel suo splendore, e a ringraziare il suo Creatore. (tempi)