21.1.12

UNA INVISIBILE SUPER CASTA

di Ernesto Galli della Loggia
(tratto dal Corriere della Sera)
Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.
Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.
È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un g r a d o a l t i s s i m o d i arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.
Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.
Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri. Il governo Monti ha un’agenda fittissima, si sa. Ma se tra le tante cose da fare riuscisse anche a scrivere un rigoroso codice etico per la super casta, sono sicuro che qualche decina di milioni di italiani gliene sarebbe grata.

18.1.12

BENI CULTURALI IN ROVINA PUR DI NON ACCETTARE IL CONTRIBUTO DEI PRIVATI

Che fortuna: nel labirinto burocratico-giudiziario, nel paradiso dei ricorsi e dei commi, l`Italia sta scaraventando via 25 milioni degli odiosi privati di modo che i pezzi del Colosseo in via di sgretolamento per mancato restauro restino saldamente nelle mani dello Stato. Che fortuna: grazie agli acrobati del cavillo, agli ideologi del dirigismo statalista che non scende a patti con quel mostro sociale che sono i «privati», l`Italia non diventerà come gli altri Paesi civili, dove i privati, addirittura incentivati da una demenziale e capitalistica politica di detrazioni fiscali, contribuiscono alla manutenzione e al buon funzionamento di musei, biblioteche, opere d`arte, gioielli architettonici.
Poveri ma di Stato, rimarremo sempre.
Le opere d`arte in malora, ma in malora pubblica, nell`attesa che una sentenza del Tar confermi la sentenza di un altro `Far, che si appoggi su una sentenza della Corte dei Conti e che a sua volta si ispiri a una sentenza del Consiglio di Stato: il tutto in una manciata di inutili e paralizzanti lustri.
Volete mettere il lamento straziante di chi è professionalmente adibito a mungere Fassistenzialismo dì Stato, a supplicare per un`elargizione pubblica, una sovvenzione, una clientela foraggiata, una burocrazia culturale più pingue? Bisogna occupare il Teatro Valle per chiedere piogge di denari statali alla cultura, mica usare quei 25 milioni di euro che il gruppo di Della Valle ha messo a disposizione per restaurare il Colosseo e salvarlo dal cedimento che quel grande anfiteatro sta vivendo ogni giorno, pezzo dopo pezzo.
Dovessero mai altri privati, altri borghesi danarosi, emulare quell`esempio e contribuire a salvare, chissà, Pompei, o i musei che chiudono con le casse vuote, oppure le chiese e i palaz- zi e i capolavori dell`arte di cui è ricca l`Italia e che si stanno dissolvendo, nell`indifferenza generale ma, per fortuna, nella mani dello Stato impotente e onnipotente, squattrinato e in rovina ma pur sempre «pubblico».
C`è sempre la carta bollata di un ricorso, per fortuna del nostro Paese in disfacimento artistico ma pur sempre disfacimento pubblico, a bloccare nei piccoli borghi, nelle cittadine più decentrate, una borghesia diffusa che forse, chissà, per senso del prestigio, per vanità, per dare un segno della propria presenza, per consegnare il proprio nome alla posterità, per senso civico, potrebbe pur contribuire a un moderno mecenatismo che sopperisca alla mancanza di fondi dello Stato e in più fornisca carburante a un senso dell`appartenenza, della corru m ità, ormai sbiadito. C`è sempre un`«istanza superiore» a bloccare tutto, ma non il degrado delle rovine che si disfano per l`incuria pubblica, per la piccineria culturale di un ceto politico e sindacale (è la Uil che ha bloccato tutto) che manda in malora i beni culturali pur di conservare il feticcio del monopolio di Stato. Nella distruzione dei monumenti che muoiono ogni giorno. Pubblici però, non privati.

Da "Il Corriere della Sera" di lunedì 16 gennaio 2012 - di Pierluigi Battista

8.1.12

FEDE E SCIENZA

Il libro pubblicato da Einaudi col titolo La dimensione umana e le sfide della scienza,nel quale si riproduce il  dialogo tra Edoardo Boncinelli, biologo molecolare, e Umberto Galimberti, filosofo, inizia con la risposta alla domanda su quale sia stata la scoperta più importante del Novecento. Boncinelli opta per l'automobile, Galimberti per la bomba atomica. Già qui si intravede la mentalità aperta, ottimista, positivamente orientata verso il fenomeno-vita di Boncinelli, e il pensiero oppressivo, cupo, ostinatamente chiuso nella monotona ripetizione dell'assunto fondamentale da parte di Galimberti, secondo cui la tecnica, da strumento nelle mani dell'uomo, è diventata oggi l'onnipotente padrona che sottomette ogni cosa. Ma perché un credente dovrebbe interessarsi a questo dialogo? Per l'importanza che la religione vi gioca, un'importanza che sembra emergere al di là delle intenzioni dei due interlocutori. In questo libretto, piccolo monumento del laicismo nostrano, le affermazioni contro la religione in sé, il cattolicesimo e il Papa sono abbondanti. Galimberti più di una volta esibisce un autentico disprezzo: "Il Papa dice cose banali"; "la religione cattolica si occupa solo di sesso"; "la Chiesa fonda se stessa sulla negazione dell'uso della ragione", affermazioni che peraltro non sorprendono più di tanto in chi sostiene che "il connotato originale dell'uomo è l'aggressività" e "il nostro originario è la follia". Anche Boncinelli ci mette talora del suo, come quando dice, con chiaro riferimento al cattolicesimo, "la sacralità della vita, altro concetto che non significa nulla". Ma, a parte il fatto già in sé molto significativo che un filosofo ateo e un biologo molecolare dedichino tanto spazio alla religione - a dimostrazione di come la religione rimane un interlocutore imprescindibile in ogni dibattito sull'uomo e sulla sua vita - sono soprattutto alcune affermazioni di Boncinelli a interessare positivamente il credente. Entrambi gli interlocutori guardano alla religione come risposta al senso della vita. Ma mentre Galimberti vede nella categoria del senso "una categoria fideista che non riguarda neppure tutti gli uomini ma solamente noi occidentali", Boncinelli, scopritore dei geni che controllano la moltiplicazione delle cellule nervose nella corteccia cerebrale, dichiara che il nostro cervello "non può fare il proprio lavoro se non trova un senso per ogni passo della propria elaborazione... Ha una necessità biologica di trovare le cause e il senso". È per questo che "la domanda numero uno di ogni essere umano è: che ci faccio, io, qui?", interrogativo esistenziale di importanza decisiva dato che "il nostro cervello non può funzionare se non si pone il più spesso possibile tale genere di domande". Questa fondazione biologica del bisogno di senso è la base su cui lo scienziato confuta la profezia del filosofo sulla fine della religione. Dice Galimberti: "Passata la presente generazione e quella dei nostri figli, entrambe cresciute antropologicamente nell'ipotesi che la vita abbia un senso, non ci sarà più nessuno che chiederà un senso alla vita". Per Boncinelli, al contrario, la religione è insostituibile perché il bisogno di senso è costitutivo dell'uomo: "Per questo la religione non morirà". E se ciò per assurdo dovesse avvenire "la condizione umana peggiorerebbe", perché oltre a soddisfare la tendenza innata dell'uomo a credere, la religione risponde all'esigenza di "medicare una ferita", la ferita delle ingiustizie di cui il mondo è ricolmo. Ne viene che, se "l'uomo in fondo è una verruca sul naso dell'universo" - come afferma nella prima parte del dialogo lo stesso - si tratta di una verruca del tutto particolare, necessitata dalla sua stessa struttura biologica a cercare il senso ultimo di sé, oltre la dimensione del mondo sensibile. Già lo scriveva Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus del 1921: "Il senso del mondo deve essere fuori di esso". Ma mentre a quel tempo la biologia era apertamente contraria a tale prospettiva, ora essa stessa contribuisce alla sua fondazione.

quadro di Giuseppe Biasi

7.1.12

LA CRITICA DEL PENSIERO CALCOLANTE

di Umberto Galimberti
Di seguito sono riportati i link di una lunga lezione di filosofia di Umberto Galimberti sul pensiero calcolante, un concetto che viene da Heidegger e che individua nel calcolo dell’utile la riduzione del pensiero occidentale. Il professore interviene sull’argomento e cerca un’alternativa in questa conferenza disponibile per intero su youtube e divisa in otto filmati.

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