29.7.07

I VALORI CHE RESISTONO IN UN’EPOCA EDONISTA

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Certe volte gli uomini sono convinti di vivere in una epoca di straordinario progresso, di straordinarie possibilità. È successo alla fine del Settecento, il periodo dei lumi. È successo alla fine dell' Ottocento, l'epoca delle magnifiche sorti e progressive. Anche i comunisti sovietici, i fascisti ed i nazisti erano convinti di avere davanti un radioso futuro. Vi sono invece epoche in cui gli intellettuali ritengono che tutto vada male. Di solito avviene dopo fasi di grande euforia.
Dopo l'euforia del 1968 è incominciata la crisi delle ideologie e del marxismo, ed i sociologi hanno incominciato a parlare di postmoderno per denunciare l'avvento della irrazionalità e della insicurezza. Bauman ha inventato una espressione ancora più pittoresca, «modernità liquida» per dire che, nella nostra società, tutte le formazioni sociali, lo Stato, il partito, l'impresa, la famiglia sono instabili, provvisorie, precarie. Che non sono più possibili progetti, impegni a lungo termine, che tutto è egoismo, insicurezza e paura. Non ho mai creduto a queste analisi. I contadini sono sempre vissuti in uno stato di spaventosa insicurezza e precarietà, spesso al limite della sopravvivenza fisica.
Durante tutto l'Ottocento e tutto il Novecento gli operai sono sempre stati minacciati dalla disoccupazione. In Urss, in India, in Cina ci sono state paurose carestie spontanee o provocate. Aggiungiamoci l'insicurezza e la paura dovute alle guerre mondiali e alle guerre civili. No, la nostra società non è più insicura e precaria di quelle del passato. Vi è anzi benessere diffuso, sicurezza sociale. La gente evita i lavori più faticosi lasciandoli agli extracomunitari e cerca di svolgere attività espressive, creative. Se non crea coppie stabili e non fa figli non è perché si sente in pericolo, ma perché vuol essere libera, e i figli richiedono di lavorare moltissimo, di sacrificarsi, di rinunciare al divertimento e, talvolta, anche alla carriera.
La nostra è un’epoca edonista, ma non è nemmeno vero che siano scomparse la lealtà, l'amicizia, la generosità e la capacità di mantenere la parola data. La gente cerca il piacere, ma continua ad amare, a lavorare e non è vero che abbia perso il senso del dovere. Semmai quelli che danno l'impressione di non averne a sufficienza sono i membri delle élite politiche ed economiche. Visti i privilegi di cui godono, vorremmo vederli più onesti, più disinteressati, più rigorosi, più efficienti. La responsabilità l'hanno sempre le élite. (18 giugno 2007- francesco alberoni)

28.7.07

IL BISOGNO DI RICONOSCIMENTO NON È VANITÀ


Noi non possiamo darci valore da soli. Ce lo danno gli altri fin da bambini amandoci, apprezzandoci, dicendoci bravo. In realtà non possiamo dare valore a nulla perché sono gli altri che, con il loro comportamento o le loro parole, ci dicono cosa è buono o cattivo, cosa è desiderabile. Se prendete due fratellini e mettete davanti a loro un qualsiasi oggetto, non appena uno lo prende in mano, l'altro lo vuole anche lui. Ha imparato a desiderarlo dal primo. Esiste poi, in ogni essere umano, una spinta interiore a creare, ad agire, a costruire, cioè a oggettivare tutto ciò che sente e pensa. C'è chi suona uno strumento musicale, chi apre una pizzeria, chi diventa insegnante, chi scrive libri e chi costruisce grattacieli. Sono tutte oggettivazioni del suo spirito: l'uomo si realizza in ciò che fa. Ma quando abbiamo creato una nostra opera, abbiamo anche bisogno di vederla riconosciuta, apprezzata dagli altri. Il musicista la sua musica, l'architetto la sua costruzione, lo scienziato la sua ricerca. Perché nessuno può dirsi bravo da solo. Possiamo costruire, realizzare, fare cose stupende ma, per sapere che valgono, per sapere che abbiamo meritato, bisogna che qualcuno ce lo dica. Il bisogno di riconoscimento non è vanità.
Che cosa avviene allora quando una persona ha dedicato anni e anni a costruire qualcosa di stupendo per la sua comunità, il suo Paese, e non solo nessuno l'apprezza, ma la ostacola e glielo distrugge? Come può conservare la fiducia in se stessa, trovare la forza di vivere e creare? La risposta è una sola: devi ricominciare da capo. Allontanarti dal vecchio mondo, andare in esilio, affrontare la solitudine. E vedere nuova gente, quella che non hai mai frequentato, quella che non conoscevi, che non capivi e di cui magari diffidavi. Avere nuove esperienze, fino a che non cambi interiormente, fino a che non ti importa più nulla di ciò che è accaduto e non scopri nuovi piaceri e nuovi interessi. Finché non ritrovi il gusto di ridere e non torni a vedere il mondo con l'occhio ingenuo, fresco del bambino. Allora ti accorgi che non hai poi perso molto, che ci sono altri modi di vivere ed altre cose da fare e da inventare. Certo è una cosa più facile da fare da giovani e che diventa sempre più difficile da vecchi perché si diventa schiavi delle proprie abitudini e del passato. Ma è l'unica salvezza. Chi si ferma a guardare indietro diventa una statua di sale come è successo — ci racconta la Bibbia — alla moglie di Lot. (Francesco Alberoni – Corsera 09 luglio 2007)

22.7.07

LA DITTATURA DEL RELATIVISMO


Il relativismo inteso come non-scelta, il relativismo come non-riconoscimento di valori universali ed accettazione di valori pragmaticamente quotidiani e materialistici è una «dittatura» perchè se l'uomo riconosce la sua libertà nella scelta, il non-scegliere lo relega ad una condizione di schiavitù dovuta ad un'accettazione di un sistema valoriale condizionato da etiche consumistiche, subentrate ad un background esperienziale di usi, costumi e sentimenti frutto della cultura e della storia di un paese stesso. La non-scelta, quindi il non riconoscimento di un'identità socialmente condivisa, porta ad una spersonificazione dell'essere stesso in quanto non più identificabile in un quadro societario/valoriale comune; da qui la crisi dell'uomo moderno ed il conseguente relativismo in nome di una riaffermazione del laicismo teso ad un' identificazione con la società che lo circonda ed i suoi valori. Ma se è vero che assistiamo ogni giorno di più alla esaltazione dell'individuo che si auto celebra rincorrendo degli «status» conformisticamente indotti, è anche vero che il malessere di cui questo stesso individuo è schiavo è dovuto alla solitudine in cui la standardizzazione di valori ed obiettivi lo hanno relegato. Ciò che distingue la massificazione dall' appartenenza ad una cultura sociale è l'etica: essa è rintracciabile nella scelta responsabile, cioè nella morale che guida l'individuo attraverso gli ostacoli che la vita gli presenta. Il campo morale per eccellenza è la cultura in cui l'uomo è cresciuto. La nostra cultura è fondata su valori cattolici e la scelta che questi tempi ci impongono è una riaffermazione di identità. Le società moderne multietniche contrappongono modi e culture diverse che vivono a stretto contatto tra loro, mancanti di una giusta regolamentazione che definisca punti d'incontro socialmente condivisi. Lo stato di diritto non consiste solo nel riconoscimento giuridico dei diritti, ma anche nel rispetto delle norme, dei principi e dei valori che sono alla base della regolamentazione giuridica. Ciò significa che accettare modi, stili e ritualità di vita diversi può avvenire solamente nel contesto legislativo generale del proprio paese.

21.7.07

IL LABORATORIO DEL PEDAGOGISMO DEMOCRATICO


Gli pseudoscienziati dell'educazione avanzano la pretesa che i processi educativi e la valutazione possano essere trattati in modo oggettivo con gli stessi metodi delle scienze fisico-matematiche. Ma l'idea che i comportamenti soggettivi siano misurabili e trattabili come un campo magnetico è, oltre che ridicola e ignorante, destinata a un fallimento certo. Ed è proprio a questo fallimento che questa corporazione di irresponsabili ha trascinato la scuola, non solo attuando «politiche ispirate da un'ideologia che non attribuisce valore al sapere», bensì «a teorie pedagogiche deliranti», alla «teoria dell'allievo "al centro del sistema" e che deve "costruire lui stesso i suoi saperi"». Non a caso dilaga la parola "laboratorio". Laboratorio è cosa che ha senso soltanto per la fisica, la chimica e la biologia, mentre il termine "laboratorio didattico" è una pomposa insulsaggine. Ma il termine dilaga perché, in queste visioni, tutta la scuola è un terreno di sperimentazione della pseudoscienza della pedagogia e della valutazione "oggettiva". Trasformando la scuola in laboratorio, il pedagogismo democratico l'ha separata dal mondo reale, in quanto sfera rarefatta dei suoi esperimenti e non luogo in cui ci si introduce alla vita sociale e alle sue regole; come se non fosse un'autentica follia che il luogo dove i nostri figli trascorrono la maggior parte del loro tempo sia altra cosa dalla vita reale. Nella scuola non si insegnano più le regole di civiltà, i comportamenti rispettosi, il valore dello studio e dell'applicazione, del merito, della competizione e della selezione. E allora niente premi ai migliori, né sanzioni ai nullafacenti o teppisti, né bocciature né punizioni. L'aspetto tragicomico è che poi i valori della competizione e del merito vengono esaltati come decisivi per il futuro della società. Ma chi sia cresciuto nel Paese dei Balocchi del "pedagogismo democratico" - dove fioriscono spinelli e telefonini, si smutandano i professori e si bastonano a sangue i crocefissi - come potrà entrare nel mondo reale, se non come uno spostato sociale? Del resto, l'ignoranza delle regole e l'incapacità di applicarsi allo studio che dilaga tra i giovani che entrano nelle università è un indice della catastrofe. «Tutte queste persone hanno oggi uno scopo soltanto: scaricare le loro responsabilità e quindi mascherare con tutti i mezzi la realtà del disastro».

7.7.07

CONFUSIONE TIPICAMENTE POSTMODERNA

Il bisogno di laicità della sinistra è arrivato a livelli davvero plateali, dato che questa "facilmente scambia l'indifferenza etica e culturale come tolleranza"; per soddisfarlo però poco servono le dottrine e le parole, molto invece la condivisione di esperienze e soprattutto quello che un tempo si sarebbe definito il "buon esempio": l'esempio di una vita e di un impegno operosi, attenti a mai condannare aprioristicamente, a mai discriminare, a cercare sempre le modalità oggettivamente migliori per realizzare il bene comune.
Rosy Bindi però se ne viene fuori con una affermazione, che fa nascere in chi legge qualche dubbio sulla condivisibilità del suo auspicio a "mescolarsi con i compagni di viaggio di una sinistra che ha più che mai bisogno di laicità". A quanto infatti essa scrive, questo "mescolarsi" dovrebbe presupporre nei cattolici la rinuncia ad una "difesa identitaria di valori non negoziabili" e imporrebbe piuttosto la "condivisione di un cammino, mite e paziente, di ricerca della verità sull'uomo che nessuno possiede, ma che solo nell'incontro e nell'apertura con gli altri possiamo provare a capire".
E’ evidente che qui Rosy Bindi si lascia contagiare dalla confusione, tipicamente postmoderna, tra la verità "politica" (che nessuno possiede a priori) e la verità "antropologica" (che invece dobbiamo presupporre, se vogliamo impegnarci seriamente nella politica). Che nessuno abbia in tasca una verità "politica" assoluta, che nessuno cioè possa presumere, senza un confronto "mite e paziente" con gli altri, di saper determinare nel modo ottimale il bene comune e le attività pubbliche necessarie a difenderlo e a promuoverlo è assolutamente vero: proprio in questo, peraltro, consiste il principio di laicità, nell'andare cioè alla ricerca del bene senza pregiudizi, in spirito di massima apertura agli altri. E che l'attività politica non debba essere strumentalizzata per attivare per suo tramite battaglie di difesa identitaria è parimenti evidente. Ma deve essere chiaro - proprio perché di laicità qui si parla - che per chi si impegna in politica, la difesa di "valori non negoziabili" non ha nulla a che vedere con la difesa di una identità particolare e meno che mai con la difesa dell'identità cristiana. I "valori non negoziabili", che è compito di tutti i politici e quindi in particolare dei politici di ispirazione cristiana difendere, sono valori umani universali: eguaglianza tra uomini e donne, difesa dei soggetti deboli (in particolare bambini e anziani), tutela e promozione del diritto alla libertà religiosa, alla vita, alla salute, all'educazione, al lavoro, no alla tortura, alla pena di morte e a ogni pena criminale degradante, proibizione di ogni manipolazione eugenetica, difesa della famiglia e della democrazia…potremmo andare avanti a lungo. Come negare che questo elenco di diritti può derivare la sua consistenza solo da autentiche e riconosciute verità antropologiche? Abbandoniamo una volta per tutte la logora affermazione secondo la quale "nessuno possiede la verità", perché la verità andrebbe piuttosto intesa come una "ricerca". La "ricerca" (questa sì aperta e spregiudicata) non può avere per oggetto la determinazione della verità sull'uomo, ma solo quella sui modi politici di concretizzarla. E' qui che si apre il discorso della politica e del dovere (per tutti!) di un onesto mescolarsi con compagni di viaggio sensibili alla tutela e alla promozione dei diritti umani. (avvenire)