25.2.07

PARTIRE DA UN'IDENTITA' CATTOLICA VIGOROSA


La battaglia che oggi il papa e i vescovi combattono contro la legalizzazione, in Italia, delle unioni di fatto etero e omosessuali suscita reazioni scettiche. Tra gli scettici vi sono alcuni rinomati intellettuali cattolici. Uno di questi, il giurista Leopoldo Elia, già presidente della corte costituzionale, ha così spiegato al "Corriere della Sera" del 13 febbraio perché ritiene sbagliate sia la scommessa di papa Joseph Ratzinger sull'Italia, sia la forte reazione della Chiesa alle nuove leggi:
"Pare che la Chiesa voglia fare dell'Italia l'eccezione d'Europa: l'Italia cattolica dove non valgono le leggi in vigore in tutti gli altri paesi. Perché la Chiesa spagnola ha reagito con misura alla legge sulle unioni di fatto, mentre la Chiesa italiana spinge alle barricate in parlamento? Perché una reazione così eccessiva rispetto a quella del tutto corretta delle conferenze episcopali francese e tedesca? Pare si manifesti la volontà di mantenere un'eccezione italiana. Forse perché a Roma c'è la sede di Pietro, perché abbiamo avuto lo stato pontificio, la Controrifoma, una lunga tradizione di legame fra trono e altare... Fatto sta che la Chiesa italiana non accetta di europeizzarsi". Ma è proprio così?
Da qualche tempo la Chiesa italiana non è più un'eccezione solitaria, tra le Chiese dell'Europa occidentale. Altre conferenze episcopali guardano ad essa come a un modello e ne imitano l'azione. In Portogallo, ad esempio, la Chiesa si è recentemente opposta con forza a un referendum per la completa liberalizzazione dell'aborto: e il referendum, tenutosi lo scorso 11 febbraio, è fallito per la scarsa affluenza dei votanti.
Ma il caso più lampante di ripresa del modello italiano sta avvenendo in Spagna. Lì la conferenza episcopale sta compiendo una vera e propria inversione di marcia, dopo anni di divisioni, di incertezze e di assenza di una guida autorevole.
Ci sono due documenti collettivi che attestano la svolta dell'episcopato spagnolo. Sono due "istruzioni pastorali" discusse e votate da tutti i vescovi nel 2006, emesse la prima il 30 marzo e la seconda il 23 novembre. (tratto da www.chiesa)
Per una critica alle tesi del costituzionalista cattolico Leopoldo Elia sulla Chiesa italiana che rifiuta la legalizzazione delle unioni di fatto e quindi "non accetta di europeizzarsi", vedi questo commento di Pietro De Marco, professore all'università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale:
> Leopoldo Elia e l’Europa dei Pacs come cànone
Il discorso di Benedetto XVI alla Chiesa italiana letto a Verona il 19 ottobre 2006 e assunto dai vescovi spagnoli come propria guida:
> "Mi rallegro di essere con voi oggi..."
Il testo originale dell'istruzione, nel sito della conferenza episcopale spagnola:
> "Orientaciones morales ante la situación actual de España"

21.2.07

DIRITTO NON COINCIDE CON DESIDERIO


La famiglia non è un'invenzione del cristianesimo, ma qualcosa di profondamente presente nelle civiltà mesopotamica, greca, semitica, e infine romana, dal cui diritto lungamente elaborato traiamo ancor oggi preziosi elementi. In esso e poi nella nostra Costituzione la famiglia riveste un interesse sociale di ordine pubblico che va tutelato, evitando di cambiare in modo estemporaneo fondamentali istituti giuridici consolidati nei secoli; e non cedendo al corrivo uso di parificare il termine diritto e quello di desiderio. I diritti sono una cosa, i desideri un'altra e solo i primi sono fondati e vanno garantiti, nel senso che non è compito della legge dello Stato soddisfare ogni desiderio che si esprime nella società.
Ora nel caso della famiglia fondata sul matrimonio almeno il common sense impone di distinguere tra matrimonio e convivenze di diverso tipo: distinguere ciò che è diverso è segno di intelligenza e di giustizia, né è costrizione richiamare l'attenzione dei distratti sui differenti scopi, valori e funzioni che connotano da un lato la famiglia e dall'altro convivenze varie. Ma oggi si vorrebbe che a ciascuno fosse consentito di vivere come vuole, attraverso leggi che lo permettono, all'unica condizione di non violare la Costituzione: leggi cioè non obbligatorie (come sono quelle che ordinano o vietano) ma "permissive".
Il fatto è che queste leggi che concedono comportamenti sotto certe condizioni, raramente rispettano il contenuto minimo del diritto naturale e la base di ogni convivenza civile, cioè i criteri del nemimem laedere, tolto il quale non vi è più società civile ma una lotta a morte dei forti contro i deboli, e quello di dare a ciascuno il suo.
Si può pensare diversamente solo se si ha un'idea povera di democrazia, in cui questa si riduce al criterio di maggioranza applicato in maniera indiscriminata. Una tale democrazia priva di altre norme avrebbe come limite solo il rispetto formale della Costituzione, ossia di una carta che come è nata da una maggioranza così può essere mutata col cambiare delle maggioranze: siamo al positivismo giuridico più spinto.
La maggioranza non può decidere qualsiasi cosa, e un'idea soltanto procedurale della democrazia può consentire qualsiasi ignominia da parte dello schieramento volta a volta prevalente.

18.2.07

Quale il rischio?

Il rischio nel riconoscere giuridicamente forme alternative alla famiglia tradizionale è quello che si sta delineando nelle polemiche di questi giorni: cioè che nasca un gruppo tessuto da relazioni di genitorialità, di filialità e di fraternità, però non fondato sul matrimonio. L'"unione" è un termine che riguarda la relazione tra due persone, però se dall'unione di due persone di sesso diverso nasce una prole, allora quella non è più un'unione, ma è un gruppo. Questo gruppo non è fondato sul matrimonio, quindi nasce un organismo para-familiare, in qualche modo simmetrico, però diverso nel suo fondamento dal modello costituzionale. Da qui il problema di un'incompatibilità con la Costituzione che va risolta.Tutto andrà fatalmente a costituire una legislazione parallela a quella del diritto di famiglia, il quale diventerà, come lo stesso matrimonio, un istituto relativo.
Chi difende le coppie di fatto, eterosessuali od omosessuali, spesso afferma che riconoscere queste unioni non arreca alcun danno alla famiglia. Questa è una, non sappiamo quanto inconsapevole, menzogna. La famiglia eterosessuale, fondata sul matrimonio, diventa inesorabilmente un fenomeno relativo: uno dei diversi fenomeni sociali, una delle diverse forme di accoppiamento. Il passo verso la completa equiparazione dei diritti tra coppie di fatto e coppie sposate è brevissimo. Avrebbe fra l'altro qualche chance di essere resa obbligatoria dalla stessa Costituzione. Di doveri all'interno delle coppie di fatto, poi, si parla ben poco. Si vuole dare un riconoscimento pubblico ad uno stato del tutto temporaneo e immediatamente revocabile in forma privata. Insomma, le ipocrisie e le contraddizioni sono evidenti. C'è assoluto bisogno di rimettere i piedi a terra e le questioni al loro posto. Con tutta la necessaria chiarezza.

17.2.07

Cattolici anticlericali


E’ il caso di chiedere se quella parte del mondo cattolico composta da vescovi, preti e laici che a suo tempo si sono consegnati a Prodi con la passione dei devoti, avverte il disagio di una contraddizione o se invece considera le scelte prodiane come il frutto maturo di una politica finalmente emancipata dalla chiesa. Una curiosità importante perché, in quest’ultimo caso, vorrebbe dire che c’è una frangia di cattolici convinti di abitare nella casa dell’arroganza, da cui si dissociano sposando tesi e progetti anticlericali. Si dovrebbe chiedere anche a Rosy Bindi che sembra voler insegnare al Padreterno a fare il proprio mestiere dicendo che «ama pensare una chiesa che si interessa delle cose di Dio». Insomma una chiesa tutta altare e aspersorio, smentendo un certo Gesù, che si interessava delle cose del Padre, liberando l’uomo dalla sofferenza fisica e dalle tenebre dell’assenza di verità. La riflessione non è provocatoria.
In realtà essa ci porta davanti a molte domande. A cominciare dal tema dell’unità della Chiesa, cartina al tornasole della credibilità dei cristiani. A nessuno sfugge il contrasto tra le tante energie profuse per il dialogo con le altre religioni e confessioni cristiane, al quale non fa da contraltare un’altrettanto generosa ricerca di comunione interna sui grandi temi che stanno a fondamento della convivenza umana. Che senso può avere l’apologia della misericordia di Dio se poi viene smentita nei rapporti dove l’obbedienza ideologica sembra prevaricare quella evangelica? Come ricordava acutamente il vescovo Maggiolini, che destino può avere una chiesa che pone il dialogare prima del credere? Ciò che sta avvenendo nel mondo cattolico è, in realtà, speculare a ciò che capita nella società: una crisi di con-senso, cioè all’incapacità di guardare nella stessa direzione, che produce inevitabilmente lo stile del dis-senso. In questo i cattolici sono figli di una cultura frammentata, più mediatica che teologica, più partitica che ecclesiale, in cui le opinioni hanno preso il posto della verità, creando fans destinati ai tanti dei dell’immaginario collettivo. Ritrovare unità su ciò che è fondamentale e non negoziabile, come il bene della famiglia, non segna solo i destini della società, ma anche quelli della Chiesa stessa.

11.2.07

ABBIAMO ACCESO IL BUIO


In Italia esiste una sola, drammatica emergenza: la notte dei valori, il buio morale, l’indefinitezza del bene e del male, l’abbandono totale – di matrice totalmente ideologica – di principi educativi come il senso civico (il cui insegnamento non a caso è scomparso dalla scuola italiana), il rispetto (non la sudditanza) dell’autorità costituita, da quella genitoriale a quella scolastica (non è passato molto tempo da quando gli alunni si alzavano in piedi all’entrata in classe di un professore), fino all’ordinamento legislativo e parlamentare di una democrazia. Questo non era fascismo – come insinua qualcuno - ma quell’insieme di regole utili a trasmettere ai giovani un minimo di senso d’ordine e di disciplina, di responsabilità personale, di autocontrollo, di rispetto delle istituzioni e di tutto ciò che rende un individuo un buon cittadino. Ma questa strada è stata abbandonata da qualche decennio in favore di una certa pedagogia di stampo marxista, che istiga i giovani alla ribellione tout court e inneggia ad una illimitata libertà di comportamento che produce soltanto debolezza interiore e fragilità caratteriale. Se a questo si aggiunge la superficialità e l’immoralità che piovono sulle teste dei giovani dalle televisioni – pubbliche e private – dalle pubblicità e da internet (che è certamente l’isola della libertà incontaminata, ma non può essere quella della totale impunità), i risultati non possono sorprendere: stiamo semplicemente crescendo generazioni di giovani selvaggi, incapaci di porre limiti al proprio egoismo, ai propri desideri e alle proprie smanie, che esprimono con una violenza inaudita, sfogando così le frustrazioni e i complessi di chi è incapace di sopportare un diniego, un rifiuto, una sconfitta. Abbiamo acceso il buio. continua … (Valentina Meliadò)

IL RISCHIO E' CHE LA NEBBIA CI AVVOLGA


Tratto da Il Blog dell’Anarca:
“Ogni volta che leggo qualcosa del card. Martini ringrazio lo Spirito Santo di aver vegliato instancabile in quei giorni di conclave di un Aprile in cui tutti ci sentivamo un po’ più soli; lo ringrazio di aver albergato nel cuore di quei santi uomini riuniti e di averli illuminati della Sapienza, così da evitare che ci capitasse Papa uno come Martini.
Io e Welby e la morte, l’articolo che l’anziano prelato ha pubblicato domenica sul Sole 24Ore, colpisce non per ciò che dice ma per quello che non dice, come quasi tutte le cose che Martini scrive. Quelle colonne sono piene di vuoto. Un vuoto tanto più drammatico e pericoloso perché proviene da un uomo di Chiesa che sa che quel vuoto verrà riempito da interpretazioni arbitrarie e contraddittorie. In quel vuoto c’è l’assenza di una parola ferma che agganci la dottrina ad una interpretazione chiara, priva di fraintendimenti. In quel vuoto c’è il solito, noioso gioco del sottinteso con cui la Chiesa debole prova a dialogare con il mondo sperando di accattivarsi la sua simpatia. Ma un pastore non deve lasciare spazio ai sottintesi ma rivendicare il valore di un’antropologia cristiana che dovrebbe essere premessa ad ogni riflessione. Il card. Martini se la dimentica spesso come fosse un surplus da omettere. Applica un principio di “finanza creativa” all’etica (tolgo di qua, ometto di là) in modo tale che alla fine il bilancio quadri e lo spirito del tempo dei suoi interlocutori ne esca soddisfatto. È il paradosso sta proprio qui: Martini, nel suo articolo, in realtà non lascia spazio all’eutanasia e non critica la decisione della Curia romana di negare i funerali religiosi a Welby. Eppure l’intero mondo laico e progressista lo interpreta così; interpreta le sue affermazioni come aperture ad un pensiero che non è della Chiesa. E questa ambiguità è il segno di un errore che è profondo e radicato nella cultura cattolica progressista: l’errore di fondare il dialogo sulla necessità di farsi accettare, di farsi piacere a tutti i costi evitando di affermare i punti di partenza di una verità che per un cristiano sono irrinunciabili.
Ma il rischio di questo gioco oggi è grande per questo la Chiesa sta cambiando la sua strategia come ricorda mons. Ravasi: "Viviamo il tempo dell’amoralità. Fino a qualche anno fa l’atteggiamento era: “Seminiamo e qualcosa resterà”. Oggi il seme si disperde, l'operazione che si sta facendo è fendere la nebbia dell’amoralità con luci forti. (...) Non è più tempo soltanto di verità penultime, come l'impegno sociale, ma di annunciare le verità ultime, capitali, decisive e discriminanti: vita e morte, bene e male, giusto e ingiusto, amore e sesso. In questi casi qualche volta anche l'urlato, l'uscita con la punta, per tagliare la mucillagine, è fondamentale. Cosa che non si fa, nemmeno all'interno della Chiesa stessa. Il rischio è sempre che la nebbia ci avvolga”. Già il rischio è quello e il card. Martini è ormai un uomo della nebbia. Le sue parole e i suoi scritti emanano luci opache, toni grigi che si confondono con il mondo, che non orientano.
C’è una parte della Chiesa che ha paura di rompere con lo spirito del tempo; che vuole farsi accettare e amare da tutti; che confonde il dialogo con l’equivoco dei punti di partenza. L’articolo di Martini è emblematico di questa confusione. Martini sa che il suo richiamo all’accanimento terapeutico in riferimento al caso Welby è improprio e ambiguo poiché lo stesso Consiglio Superiore di Sanità, nel parere del 20 dicembre 2006, ha affermato che il trattamento cui Welby era sottoposto non configurava il profilo dell’accanimento terapeutico.Martini sa che il principio dell’autodeterminazione del paziente in bioetica è un principio ristretto che si limita al consenso consapevole dell’atto medico.
Martini sa che per la Chiesa il confine tra una possibile "limitazione dei trattamenti" e l’abbandono terapeutico è un confine labile (come ha ricordato Ruini nella sua prolusione) e che rischia di legittimare quella cultura necrofila che vuole la morte come unica soluzione alle malattie degenerative e invalidanti. Per questo quell'articolo è uno sbaglio, perché non affronta questi aspetti.
La Chiesa progressista, quella di Martini e di Tettamanzi, quella dei focolarini e della comunità di S.Egidio, quella dei boy scouts con le bandierine arcobaleno e dei teo-dem che mescolano "parrhesia" e ignoranza, è la Chiesa che non vuole capire che per un credente i dilemmi etici non sono incidenti di percorso ma sono il limite e la misura che danno valore alla domanda di senso. Per la cultura laica, definita tra libero arbitrio e progressismo scientifico, il dubbio etico spesso è solo un rallentamento, un inutile ostacolo che la libertà individuale deve provvedere a rimuovere. Lo scientismo (non la scienza ma l’ideologia della scienza) è dogmatico come la religione; si basa anch’esso su un antropologia di partenza che però è esattamente l’opposto di quella cristiana.
La Chiesa di Martini è la Chiesa che piace molto agli intellettuali, ai salotti del capitalismo laico e a quelli radical chic; ma è anche la Chiesa che non piace al popolo di Dio che forse, dai suoi pastori, non si aspetta la nebbia… ma qualche luce forte.
Gorge Weigel nel suo libro su Benedetto XVI, ricorda i funerali di Don Giussani a Milano, il 22 febbraio 2005. Giovanni Paolo II volle che fosse Joseph Ratzinger a celebrarli. L’omelia di Ratzinger cominciò così: “Don Giussani era cresciuto in una casa povera di pane, ma riccca di musica e così fin dall’inizio fu toccato, anzi ferito, dal desiderio di bellezza (…) e così trovò Cristo”. L’omelia di Ratzinger durò 20 minuti e alla fine fu accolta da “un’intensa standig ovation” di migliaia e migliaia di ragazzi, ragazze, uomini e donne. Poi finita la messa “il cardinale Tettamanzi si alzò per pronunciare alcune parole di commiato e quando finì ci fu silenzio nel duomo”. Il freddo “pastore tedesco” aveva entusiasmato la folla; il cardinale progressista e benvoluto dagli intellettuali laici, l’aveva lasciata indifferente. Una Chiesa che parla senza dire nulla e in quel nulla lascia spazio a tutto, sarebbe meglio stesse in silenzio. Giacomo Biffi, uno di quei cardinali che non scrive sul Il Sole 24Ore né su Repubblica e che non gli importa di piacere al mondo, ha pubblicato un libro straordinario: “Contro Maestro Ciliegia”, una lettura teologica della favola di Pinocchio carica di umorismo e di ironia. Biffi ricorda che il cristiano, come Pinocchio, è un “disadattato del mondo” e che la Chiesa, come la fata turchina, è una realtà “inaudita” perché “la più viva preoccupazione della Chiesa non deve essere quella di rendersi più credibile – cioè più conforme alla mentalità e alle attese degli uomini- ma al contrario di mantenersi «incredibile», perché solo così può essere riconosciuta come Chiesa e suscitare la fede”.
Chissà se il cardinale Martini ha mai letto la favola di Pinocchio…”

9.2.07

Due regole per dirigere bene: ascoltare e decidere


Ci sono dei capi che non sanno comandare perché non ascoltano, ed altri che non sanno comandare perché non decidono. Ci sono capi dispotici, autoritari, che non delegano nulla, che danno ordini senza aver consultato i propri collaboratori, i propri esperti. Capi che desiderano essere temuti, che vogliono vedere i propri dipendenti tremare davanti a loro e dire servilmente di sì. O che, semplicemente, hanno una personalità così incombente che nessuno ha il coraggio di fiatare. Anche se sono dei geni costoro finiscono inesorabilmente per fare degli errori catastrofici. Nessuno ha spiegato a Napoleone i pericoli che correva avventurandosi all'interno della Russia per inseguire il generale Kutuzov. Ma chi aveva il coraggio di contraddire l'Imperatore? Ed ora passiamo ai capi che compiono l'errore opposto. Qualche volta si tratta di persone poco intelligenti e paurose che non decidono per timore di sbagliare... Spesso sono burocrati terrorizzati all' idea di assumersi una responsabilità. Non prendono nessuna iniziativa, seguono la routine tradizionale che non fa correre loro nessun rischio. Vi sono poi i capi che desiderano essere amati, che non sanno dire di no, che promettono qualcosa a tutti, ma poi non concludono nulla perché si invischiano in programmi contraddittori.
Vi sono infine dei capi intelligenti e liberali che danno una grande autonomia ai propri collaboratori, li lasciano fare, li fanno discutere, favoriscono l'emulazione, la competizione per fare emergere molte idee, molte proposte. Alcuni di loro, però, prolungano troppo la fase di mobilitazione. Accogliendo sempre nuovi progetti, inserendo sempre nuovi protagonisti, finiscono per generare incertezza, disordine e scatenare conflitti. E c'è perfino chi, lasciando fare, crea una specie di corte feudale dove comandano i cortigiani e i favoriti. Per evitarlo bisogna che il capo faccia il capo. In una situazione creativa ma pericolosa, il capo ha riunito tutti gli interessati e ha elencato con lucida chiarezza i problemi da risolvere. Poi li ha fatti parlare, li ha lasciati discutere, li ha lasciati sfogare. Alla fine però ha ordinato il silenzio ed enunciato con fermezza le sue conclusioni e le sue decisioni. Poi ha assegnato a ciascuno il suo compito, e la scadenza in cui doveva portarlo a termine. Si è creata immediatamente una atmosfera serena e tutti sono usciti motivati ed allegri. (Francesco Alberoni)

3.2.07

SI PUNTA ALLA DESTRUTTURAZIONE DELLA SOCIETA'


Forse non se ne parla abbastanza, ma il tratto distintivo dei progressisti di casa nostra, orfani di Marx, della massa e di tutte le utopie sociali che di volta in volta essi hanno sostenuto, è l'individualismo nudo e crudo. Il solipsismo. Perché una società di soli si governa meglio. Perché su di essa è più facile far calare la mannaia del potere. Perché atomizzare la società e depotenziarne i cosiddetti «corpi intermedi» lascia campo libero al dilatarsi dell'azione dello Stato.
Una prova? Pensate a quanto sta accadendo coi Pacs e con la questione del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto: si vuol far credere che una legge ad hoc sia una urgenza sociale inderogabile, salvo poi scoprire che è un'urgenza soltanto per i partiti della maggioranza e che chi sceglie la strada della convivenza, nella maggior parte dei casi, lo fa proprio perché non vuole assumersi gli oneri e i doveri del matrimonio; si dice che si vogliono garantire diritti agli individui, salvo poi scoprire che tali diritti sono già garantiti dal diritto privato. Perché, dunque, una legge a tutti i costi, se non per assestare l'ennesimo colpo alla famiglia, giustamente definita dalla Chiesa come «cellula fondamentale della società»? Ma - obiettano quelli dell'Unione - la famiglia è già in crisi di suo: i divorzi e le separazioni aumentano, di figli se ne mettono al mondo sempre meno, la prospettiva di legarsi per tutta la vita a una persona, più che come la realizzazione di un sogno e di un desiderio, è vissuta dalla maggioranza dei giovani come un incubo. E allora - pensano a sinistra - non è meglio se alla famiglia mettiamo una pietra sopra e lasciamo che tutti vadano in Pacs? Risultato: invece che rimboccarsi le maniche e dare una mano - per quanto possibile - alla famiglia, i nostri attuali governanti studiano tutti gli stratagemmi possibili per affossarla, per dipingerla come un retaggio del passato, per farla apparire inutile agli occhi dei giovani. Perché? Perché affossare la famiglia vuol dire affossare il primato della persona e della società sullo Stato, vuol dire cancellare il ruolo fondamentale di mamma e papà nell'educazione dei figli, vuol dire togliere di mezzo ogni muro di difesa che separa la persona dallo Stato.
…..
Vanno tutte in un'unica direzione la battaglia per i Pacs, per l'eutanasia, per la fecondazione senza limiti (celate magari, con abilità retorica, sotto il nome di «riconoscimento giuridico dei diritti degli individui che fanno parte di unioni civili», di «testamento biologico», di «aiuto alla maternità»). Ed è la direzione dello sganciamento dell'individuo dal suo legame con l'altro, dal suo essere naturaliter costruttore di relazioni (e quindi di societas), uno sradicamento in grande stile dall'appartenenza della persona a una famiglia, a una tradizione, alla «carne» di una storia e di una civiltà. Sganciamento e sradicamento che conducono diritti alla riduzione solipsistica della persona e all'affermazione dello Stato come unica fonte del diritto dell'individuo.
Quello che sta prendendo campo, con le nuove cosiddette «battaglie civili» della sinistra, quindi, è una inedita forma di individualismo di Stato (o, se preferite, di statalismo individualista) che punta alla destrutturazione della società, alla sua atomizzazione, alla sua frantumazione come mezzo per aumentare lo spazio di azione e di controllo del potere statale sulla vita dei cittadini. (ragionpolitica)