30.12.06

BUON ANNO 2007: PERCHE' SIA UN ANNO DI PACE


"Et erit iste pax" – tale sarà la pace, dice il profeta Michea (5,4) circa il futuro dominatore di Israele, di cui annuncia la nascita a Betlemme. Ai pastori che pascolavano le loro pecore sui campi intorno a Betlemme gli angeli dissero: l'Atteso è arrivato. "Pace in terra agli uomini" (Lc 2,14). Egli stesso Cristo, il Signore, ha detto ai suoi discepoli: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace" (Gv 14,27). Da queste parole si è sviluppato il saluto liturgico: "La pace sia con voi". Questa pace che viene comunicata nella liturgia è Cristo stesso. Egli si dona a noi come la pace, come la riconciliazione oltre ogni frontiera. Dove Egli viene accolto crescono isole di pace.
Noi uomini avremmo desiderato che Cristo bandisse una volta per sempre tutte le guerre, distruggesse le armi e stabilisse la pace universale. Ma dobbiamo imparare che la pace non può essere raggiunta unicamente dall'esterno con delle strutture e che il tentativo di stabilirla con la violenza porta solo a violenza sempre nuova. Dobbiamo imparare che la pace – come diceva l'angelo di Betlemme – è connessa con l'eudokia, con l'aprirsi dei nostri cuori a Dio. Dobbiamo imparare che la pace può esistere solo se l'odio e l'egoismo vengono superati dall'interno. L'uomo deve essere rinnovato a partire dal suo interno, deve diventare nuovo, diverso. Così la pace in questo mondo rimane sempre debole e fragile. Noi ne soffriamo. Proprio per questo siamo tanto più chiamati a lasciarci penetrare interiormente dalla pace di Dio, e a portare la sua forza nel mondo. Nella nostra vita deve realizzarsi ciò che nel Battesimo è avvenuto in noi sacramentalmente: il morire dell'uomo vecchio e così il risorgere di quello nuovo. E sempre di nuovo pregheremo il Signore con ogni insistenza: Scuoti tu i cuori! Rendici uomini nuovi! Aiuta affinché la ragione della pace vinca l'irragionevolezza della violenza! Rendici portatori della tua pace! (dal discorso di Benedetto XVI – 21/12/2006)

29.12.06

LA FEDE NELLA RAGIONE


Rodney Stark ha dedicato i suoi studi alla religiosità americana attuale. Di qui l'intuizione che i tratti distintivi della società americana - l'apertura al nuovo, il rispetto della legge, la fede nella ragione, il culto della libertà - avessero a che fare con la sua tradizione religiosa; e poi la verifica rigorosa di quest'ipotesi. Nasce così un primo libro - The rise of christianity, Le origini della cristianità - in cui osserva come il successo di quell' «oscuro, marginale movimento di Gesù» non è dovuto ad altro che a una concezione della vita che ribalta il pessimismo antico in una solare letizia fondata sulla certezza della bontà e razionalità del creato. Dopo The glory of God, che tante critiche gli ha attirato per il modo in cui, laicamente, ribalta certi luoghi comuni della storiografia anticattolica, prosegue la sua indagine con The victory of reason. Il testo si interroga sui motivi per cui l'indagine scientifica, le istituzioni democratiche, l'economia di mercato si sono sviluppate in Europa e non altrove.
La risposta, ancora una volta, è la medesima: è il cattolicesimo che ha condotto a quella triplice "vittoria della ragione" - scienza, democrazia, capitalismo - di cui va fiero il mondo moderno. Contro le immagini correnti che lo identificano con un cieco fideismo, infatti, il pensiero cattolico è una litania di lodi alla ragione: «La ragione è cosa di Dio» (Tertulliano); «non pensiate che queste cose si debbano ricevere solamente attraverso la fede, ma devono anche essere asserite dalla ragione» (san Clemente Alessandrino); «lontano da noi il credere che Dio abbia in odio la facoltà della ragione, dal momento che non potremmo neppure credere se non avessimo un'anima razionale» (sant'Agostino). Anzi, il cristianesimo porta il logos fuori dal recinto in cui l'avevano confinato i Greci, convinti che razionale fosse solo il cielo iperuranio con le sue sfere perfette, mentre il mondo sublunare era il regno del caos; solo con l'idea di creazione a opera di un Dio razionale la Terra diventa accessibile al pensiero». Di più: la fede nella ragione porta con sé l'idea di progresso. Mentre nelle altre religioni l'età dell'oro è irrimediabilmente alle spalle, e ogni novità è male, in Occidente ogni nuova scoperta è un approfondimento della conoscenza di Dio, tanto della sua parola rivelata quanto di quella impressa nel mondo: teologia e scienza sono entrambe imprese progressive, che portano a una comprensione sempre più adeguata - ma mai esaurita - del mistero di Dio nella sua parola e nelle sue opere.
Sorgono da qui i progressi della scienza medievale, che arrivò a formulare nel Trecento il principio d'inerzia (Buridano) e ad applicarlo al possibile moto della Terra (Nicola d'Oresme). «Copernico fece semplicemente il successivo, implicito passo, e non fu altro che il culmine del graduale progresso innescato nei secoli precedenti». Infatti, «nei cosiddetti secoli bui il progresso fu tale che, non più tardi del XIII secolo, l'Europa si era spinta ben oltre Roma, la Grecia e il resto del mondo. Perché? Principalmente perché il cristianesimo insegnava che il progresso era "normale" e che "nuove invenzioni sarebbero sempre state prossime"». (tempi)

26.12.06

UNA QUESTIONE CHE RIGUARDA IL FUTURO DI TUTTI NOI


In occasione del mio incontro col filosofo Jürgen Habermas, qualche anno fa a Monaco, questi aveva detto che ci occorrerebbero pensatori capaci di tradurre le convinzioni cifrate della fede cristiana nel linguaggio del mondo secolarizzato per renderle così efficaci in modo nuovo. Di fatto diventa sempre più evidente, quanto urgentemente il mondo abbia bisogno del dialogo tra fede e ragione. Immanuel Kant, a suo tempo, aveva visto espressa l'essenza dell'illuminismo nel detto "sapere aude": nel coraggio del pensiero che non si lascia mettere in imbarazzo da alcun pregiudizio. Ebbene, la capacità cognitiva dell'uomo, il suo dominio sulla materia mediante la forza del pensiero, ha fatto nel frattempo progressi allora inimmaginabili. Ma il potere dell'uomo, che gli è cresciuto nelle mani grazie alla scienza, diventa sempre più un pericolo che minaccia l'uomo stesso e il mondo.
La ragione orientata totalmente ad impadronirsi del mondo non accetta più limiti. Essa è sul punto di trattare ormai l'uomo stesso come semplice materia del suo produrre e del suo potere. La nostra conoscenza aumenta, ma al contempo si registra un progressivo accecamento della ragione circa i propri fondamenti; circa i criteri che le danno orientamento e senso. La fede in quel Dio che è in persona la Ragione creatrice dell'universo deve essere accolta dalla scienza in modo nuovo come sfida e chance. Reciprocamente, questa fede deve riconoscere nuovamente la sua intrinseca vastità e la sua propria ragionevolezza. La ragione ha bisogno del Logos che sta all'inizio ed è la nostra luce; la fede, per parte sua, ha bisogno del colloquio con la ragione moderna, per rendersi conto della propria grandezza e corrispondere alle proprie responsabilità. È questo che ho cercato di evidenziare nella mia lezione a Regensburg. È una questione che non è affatto di natura soltanto accademica; in essa si tratta del futuro di noi tutti. (dal discorso di Benedetto XVI – 21/12/2006)

23.12.06

Matthias Stom: Adorazione dei pastori - 1640


BUON
NATALE
A TUTTI!

22.12.06

L'EUROPA SEMBRA VOLERSI CONGEDARE DALLA STORIA


Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia. Perché le cose stanno così? Questa è la grande domanda. Le risposte sono sicuramente molto complesse. Prima di cercare tali risposte è doveroso un ringraziamento ai tanti coniugi che anche oggi, nella nostra Europa, dicono sì al figlio e accettano le fatiche che questo comporta: i problemi sociali e finanziari, come anche le preoccupazioni e fatiche giorno dopo giorno; la dedizione necessaria per aprire ai figli la strada verso il futuro. Accennando a queste difficoltà si rendono forse anche chiare le ragioni perché a tanti il rischio di aver figli appare troppo grande. Il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. Ciò significa: dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa essenziale "materia prima" della vita – il tempo – sembra scarseggiare sempre di più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la propria vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? Avere tempo e donare tempo – è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per trovare se stessi. A questo problema si aggiunge il calcolo difficile: di quali norme siamo debitori al bambino perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà?
Il problema è diventato così difficile anche perché non siamo più sicuri delle norme da trasmettere; perché non sappiamo più quale sia l’uso giusto della libertà, quale il modo giusto di vivere, che cosa sia moralmente doveroso e che cosa invece inammissibile. Lo spirito moderno ha perso l’orientamento, e questa mancanza di orientamento ci impedisce di essere per altri indicatori della retta via. Anzi, la problematica va ancora più nel profondo. L’uomo di oggi è insicuro circa il futuro. È ammissibile inviare qualcuno in questo futuro incerto? In definitiva, è una cosa buona essere uomo? Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso – accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi – è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile. Di fatto, possiamo trasmettere la vita in modo responsabile solo se siamo in grado di trasmettere qualcosa di più della semplice vita biologica e cioè un senso che regga anche nelle crisi della storia ventura e una certezza nella speranza che sia più forte delle nuvole che oscurano il futuro. Se non impariamo nuovamente i fondamenti della vita – se non scopriamo in modo nuovo la certezza della fede – ci sarà anche sempre meno possibile affidare agli altri il dono della vita e il compito di un futuro sconosciuto.
Connesso con ciò è, infine, anche il problema delle decisioni definitive: può l’uomo legarsi per sempre? Può dire un sì per tutta la vita? Sì, lo può. Egli è stato creato per questo. Proprio così si realizza la libertà dell’uomo e così si crea anche l’ambito sacro del matrimonio che si allarga diventando famiglia e costruisce futuro. A questo punto non posso tacere la mia preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto. Molte di queste coppie hanno scelto questa via, perché – almeno per il momento – non si sentono in grado di accettare la convivenza giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio. Così preferiscono rimanere nel semplice stato di fatto. Quando vengono create nuove forme giuridiche che relativizzano il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico. In tal caso il decidersi per chi già fa fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi, per l'altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso.
Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C'è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla "sfera biologica" – finisce per distruggere se stesso.
Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro - il nostro - dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio? (dal discorso di Benedetto XVI – 21/12/2006)

19.12.06

IL SEME DELLA NUOVA RIVOLUZIONE


La scarna, disperata contestazione degli studenti è la spia d’un malessere forse più diffuso e profondo di quanto non si pensi. Gli studenti han gridato «abbasso il dittatore», «morte al tiranno bugiardo»; i più animosi hanno tentato di attaccare il podio, altri hanno spaccato le cineprese della tv, bruciato gigantografie di Ahmadinejad. Presto si è giunti a un feroce scambio di accuse, di maledizioni interrotto dall’arrivo, tardo, degli sbirri. La propaganda governativa fa spallucce definendo «insignificante» la sortita di «quattro cani sciolti». Ma erano anch’essi «cani sciolti» quei «quattro» che nel lontano 1979 contestarono Hoveida, il primo ministro dello Scià, nel campus dell’università di Teheran. Qualcuno di quei ragazzi scomparve, altri vennero arrestati e torturati dalla Savak, la polizia segreta, ma i pochi superstiti di quella che le autorità con sussiego definirono una «jacquerie paramarxista» furono il seme della rivoluzione a mani nude che disarcionò il potentissimo Scià. Disgraziatamente l’impresa di Khomeini ha partorito un regime inetto e senza misericordia. Da qui l’obbligo per l’Occidente di inviare un segnale ai ragazzi contestatori, ai loro compagni. Non è con gli ipotizzati blitz aerei sui siti nucleari che si può pensare d’abbattere la dittatura in turbante. Tocca alla società iraniana, ai nuovi Rastignac, già delusi dalla «primavera di Khatami», denunciare il «sistema» accelerandone così la fatale implosione. Tocca a noi non lasciarli soli, quei coraggiosi.

15.12.06

LA NOSTRA SOCIETA' STA MORENDO DI DIRITTI


“Molte persone nel mondo non godono nemmeno dei diritti umani più elementari. Ma mi chiedo: non è perché altre persone nel mondo hanno accelerato talmente la corsa ai diritti di ultima generazione trasformando ogni loro desiderio in diritto?”. Non si tratta di negare i diritti, anzi. Si tratta di capire che senza i doveri i diritti si avvitano su se stessi, si elidono a vicenda. La babele dei diritti si trasforma, alla fine, nel solo diritto del più forte. I diritti stessi, per essere pienamente tali, devono accettare la priorità del dovere nei loro confronti. E’ questo il vero modo di difendere i diritti. E’ vero che “ad ogni diritto corrisponda un dovere e viceversa”, ma non è sufficiente: “è facile, infatti, inventarsi artificialmente un dovere come motivazione di un nuovo diritto. In Italia diritto all’aborto è contemplato in una legge che parte dal dovere di accogliere la vita”. “Il diritto all’eutanasia viene motivato con il dovere di non far soffrire. La complementarietà tra diritti e doveri è vera, ma si presta alla manipolazione ideologica. Bisogna proprio ritornare alla priorità del dovere”. “Il dovere è un ‘essere a disposizione’, invece il diritto è un ‘avere a disposizione’. Per questo il dovere non procede da noi stessi, ma viene da altro”.
“Ora si tratta di decidere se noi siamo padroni di noi stessi e dell’essere o se noi stessi e l’essere ci sono dati come un compito”.
“Il pensiero moderno è del primo parere e quindi assolutizza i diritti, io sono del secondo parere e quindi parto dai doveri, ossia da una vocazione, da un compito che ci è stato assegnato”.
“La nostra società sta morendo di diritti. Il diritto a produrre l’uomo in laboratorio e, in genere, il diritto a fare sta assolutizzando la tecnica, e di sola tecnica si muore”. “Non saranno mai i diritti a porsi dei limiti. Il diritto è un poter fare; ci saranno sempre nuove cose da fare e quindi nuovi diritti, senza limite. Il limite viene dal dovere. Una politica dei doveri è una politica del senso e del limite”. “Penso al fatto che abbiamo molte dichiarazioni universali dei diritti ma nessuna dei doveri”.
Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio Van Thuan

12.12.06

BUGIARDI E IPOCRITI


Con l'annuncio dell'impegno del Governo a produrre un disegno di legge sulle unioni civili si è ribadito nuovamente il carattere ipocrita di queste iniziative che mirano esclusivamente ad accreditare una forma alternativa di famiglia. Si continua a dire che a gennaio si parlerà di "diritti individuali" e che la famiglia rimarrà una sola, quella tradizionale, che nessuno vuole mettere in pericolo. Si tratta di menzogne.
Non ha senso parlare di diritti individuali di persone alle quali è riconosciuto uno stato di "coppia" e ancora di più di diritti che hanno uno spiccato carattere pubblico, come quelli relativi ai temi previdenziali ed assistenziali. La constatazione è talmente immediata da far pensare che chi esprime certe giustificazioni abbia oltre ad assai poco rispetto per la famiglia, anche un certo disprezzo per l'intelligenza degli uditori. Quali che siano le norme da inserire in quel disegno di legge è chiaro che il tutto andrà fatalmente a costituire una legislazione parallela a quella del diritto di famiglia, il quale diventerebbe, come lo stesso matrimonio, un istituto relativo.
Chi difende le coppie di fatto, eterosessuali od omosessuali, spesso afferma anche che riconoscere queste unioni non arreca alcun danno alla famiglia. Anche questa è una, non sappiamo quanto inconsapevole, menzogna. La famiglia eterosessuale, fondata sul matrimonio, diventa inesorabilmente un fenomeno relativo: uno dei diversi fenomeni sociali, una delle diverse forme di accoppiamento. Il passo verso la completa equiparazioni dei diritti tra coppie di fatto e coppie sposate è brevissimo. Avrebbe fra l'altro qualche chance di essere resa obbligatoria dalla stessa Costituzione. Di doveri all'interno delle coppie di fatto, poi, si parla ben poco. Si vuole dare un riconoscimento pubblico ad uno stato del tutto temporaneo e immediatamente revocabile in forma privata. Insomma, le ipocrisie e le contraddizioni sono evidenti. (dall’Osservatore Romano)

3.12.06

UN PAESE CHE INVECCHIA E DIVENTA PIU' IMMATURO


L'Italia non solo sta invecchiando rapidamente, ma paradossalmente è anche più immatura; il processo di disgregazione della famiglia aggrava i problemi sociali ed economici, e c'è una chiara incapacità di capire e gestire il fenomeno dell'immigrazione. È il quadro poco confortante che emerge dal rapporto sugli scenari demografici presentato dalla Fondazione Agnelli e dal Gruppo di Coordinamento per la Demografia: «Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all'Italia di domani». Dopo aver letto il rapporto si ha l'impressione che all'Italia di domani non stia pensando nessuno, malgrado si sia già oggi al centro di un processo di profonda trasformazione demografica. Che l'Italia sia il Paese più «vecchio» del mondo è risaputo, così come il fatto che ciò è dovuto sia all'aumento effettivo degli ultrasessantacinquenni (al ritmo di 100mila unità l'anno), sia al persistere di bassissimi tassi di fecondità, malgrado una leggera ripresa negli ultimi anni. Ma ciò che il rapporto mette in risalto è il «palese contrasto tra una popolazione demograficamente anziana e i "valori" giovanilistici che prevalgono o si vogliono far prevalere nella nostra società». Soprattutto emerge un ritardo, che tende continuamente a crescere, dell'ingresso dei giovani nel mondo adulto, sia per quel che riguarda l'inizio dell'attività produttiva, sia per la decisione di lasciare la famiglia d'origine per costruirsi una vita propria. Impressionante il confronto con gli altri Paesi europei: in media soltanto un giovane su 3 (tra i 18 e i 34 anni) vive con i genitori, nessun Paese supera comunque il 50%, mentre in Italia la proporzione è addirittura del 60%. Non solo: mentre nei grandi Paesi europei circa il 60% dei giovani tra i 20 e i 24 anni sono già occupati, in Italia si scende al di sotto del 40% e oltretutto il reddito medio dei giovani italiani tra i 25 e i 30 anni è il più basso d'Europa (10% in meno rispetto alla Spagna, 35% rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna). Ciò peraltro è fattore non secondario nel determinare i bassi tassi di fecondità. Il ritardo dei giovani nel diventare adulti e l'aumento degli anziani porta a ridurre sempre più la fascia produttiva della popolazione, ovvero degli adulti che lavorano e che hanno responsabilità familiari. Nei prossimi 5 anni ad esempio, la fascia di popolazione tra i 20 e i 59 anni perderà annualmente circa 158mila unità. La situazione è tale, dice il rapporto, che «c'è da chiedersi se non si stia diffondendo una «deresponsabilizzazione» in gran parte della popolazione italiana, da un lato perché ancora si trova in una protratta condizione di dipendenza prelavorativa, dall'altra parte perché ormai uscita dalle responsabilità del lavoro produttivo». (continua)