28.11.11

È NECESSARIO RAGGIUNGERE UN ORIZZONTE PIÙ AMPIO

Albert Einstein affermava che la realtà, per poter essere spiegata e affrontata, deve essere semplificata e non resa illusoriamente più semplice. Sapere semplificare situazioni complesse è qualità dei leader, spacciare come semplice qualcosa che invece è complicato è difetto dei dilettanti. Oggi si intuisce che in tutto il mondo occidentale si cerca di spiegare la crisi economica in modo apparentemente semplice, indicando soluzioni facilmente attuabili a breve, senza però domandarsi se queste presunte soluzioni non possano addirittura aggravare la crisi stessa.
Il debito pubblico contratto dai vari Paesi non è stato prodotto in contesti assimilabili e non può pertanto essere analizzato in modo omogeneo. In realtà, la sua dimensione, il suo costo, la possibilità di rinnovo alla scadenza — variabili che tanto preoccupano i mercati e i Governi — si possono ridurre e assorbire, in una fase di difficoltà come quella attuale, solo con la crescita economica. Il prelievo fiscale in tutte le sue forme, senza una vera strategia di crescita, che è peraltro in contraddizione con il prelievo fiscale stesso, permette solo di accrescere ulteriormente la spesa pubblica, inevitabile per permettere interventi economici in assenza di sviluppo. La crescita, in un momento come quello attuale, si ottiene solo con l’uso opportuno delle risorse disponibili, per favorire le imprese che creano ricchezza e occupazione sostenibile, pagano le tasse e permettono con queste di assorbire il debito.
Imposte patrimoniali, nuove tasse o surrogati simili, durante una crisi prolungata, riducono o azzerano le risorse per gli investimenti, scoraggiano la fiducia degli investitori, penalizzano il costo del debito pubblico e le possibilità di rinnovo alla sua scadenza. In questo contesto, imporre tasse sui patrimoni e sui redditi equivale a una contro-sussidiarietà suicida dello Stato verso il cittadino. Chi detiene patrimoni leciti, sui quali ha pagato imposte giuste, ha contribuito a creare ricchezza e, proprio grazie a essi, continua a produrla con investimenti e consumi.
Ulteriori prelievi fiscali non sarebbero sinonimo di solidarietà, ma solo di una maggiore spesa pubblica e forse di un debito più alto e di una povertà più diffusa. Imposte alte penalizzano il risparmio, generano sfiducia nella capacità di stimolare la ripresa, colpiscono le famiglie e impediscono la formazione di nuovi nuclei familiari, creano incertezza e precarietà del lavoro. In breve, pongono i presupposti per un’altra fase di sviluppo non sostenibile.
È questa la realtà da spiegare, evitando, per dirla con Einstein, illusorie semplificazioni. Ogni azione importante, per ottenere successo, deve essere chiara nel contesto, negli obiettivi, nelle risorse necessarie e sulla loro organizzazione. Le autentiche soluzioni globali della crisi devono quindi tenere conto di cosa l’ha originata, della sua ampiezza, del tempo e dei mezzi necessari per risolverla. È necessario cioè raggiungere un orizzonte più ampio. Come fece Noè, che alzando lo sguardo riuscì ad andare oltre se stesso e a salvare l’umanità. (Ettore Gotti Tedeschi)

NEGARE LA VITA COMPORTA IL CROLLO DELL' ECONOMIA

Nulla è più razionale di un principio di morale cattolica. Il crollo della natalità, oltre all' umiliazione della dignità umana attraverso le pratiche di aborto ed eutanasia, è l'esempio più evidente di quanto negare la vita comporti il crollo dell' economia. Trent' anni fa - grazie alle tesi malthusiane, rapidamente divulgate e altrettanto rapidamente recepite in un sistema culturale ormai relativista e prenichilista - il mondo occidentale decise di interrompere la natalità per il bene comune, per stare meglio e per non consumare troppo le risorse del pianeta. Riuscendo così a produrre un effetto diametralmente opposto. Infatti poche leggi economiche sono così razionalmente correlate all' andamento della natalità, il negarlo esprime solo l' irrazionalità pseudoscientifica e/o la non rettitudine di intenzioni. Tutti i modelli di crescita economica classici - per citarne qualcuno quelli di Solow e dello stesso Keynes - sono totalmente riferiti alla crescita o decrescita della popolazione e pertanto alla offerta di mano d' opera, alla produttività, alla domanda, agli investimenti e alla creazione di risparmio.
Mi viene da affermare che chi non vuole la crescita della popolazione, in realtà, non voglia la crescita economica e del benessere. Ciò è spiegato dal fatto che costoro vedono nella crescita economica un peggioramento della qualità della vita (di chi può goderne...), un incoraggiamento dei bisogni artificiali, un consumo delle risorse del pianeta ecc. In realtà, essendo la maggior parte di queste affermazioni sbagliate, emerge l' idea più forte che in realtà sia l' uomo (egoista o peggio) a non sopportare il prossimo e a pensare continuamente come sacrificarlo con mezzi «leciti» e politicamente corretti. Anche Caino non sopportava Abele, per lui era di troppo. Era migliore produttivamente e lo umiliava con il risultato dei suoi allevamenti di greggi, ma soprattutto inquinava l' atmosfera. Come? Con i sacrifici (dei migliori montoni del gregge) che offriva, bruciandoli, a Dio. Magari Caino ha pensato di togliere dai piedi Abele quale «capitalista e antiecologista». Ma anche a lui, chi lo avrà mai suggerito?
Alla fine del Settecento, un prete protestante, Thomas Robert Malthus, cercò di fare del sacrificio della crescita della popolazione, una scienza, spiegando «matematicamente» che la crescita della popolazione avrebbe esaurito le risorse disponibili. Nonostante Malthus stesso non sia mai stato in grado di spiegare detta teoria, chissà perché, questa divenne una scienza e si perpetuò fino a giorni nostri, attraverso i neomalthusiani, che negli anni 1968-1975 decretarono che prima del 2000 decine, centinaia di milioni di persone sarebbero morte di fame, soprattutto in Asia e India. Potenza previsionale degli «economisti scienziati», non solo ciò non è successo, ma detti Paesi, grazie alla popolazione, sono diventati benestanti, stanno diventando ricchi e forse ci compreranno.
La crisi in corso nasce grazie al crollo delle nascite nel mondo occidentale che ha avuto inizio intorno al 1975. Detto crollo ha provocato la flessione dello sviluppo economico e l' aumento dei costi fissi grazie all' invecchiamento della popolazione, conseguentemente l' aumento delle imposte e il crollo del tasso di crescita del risparmio prodotto. Per compensare detti fenomeni prima si utilizzarono due modelli corretti: maggior produttività e delocalizzazione, poi, progressivamente, si stimolò la crescita consumistica a debito delle famiglie e, infine, dell' intero sistema economico, fino agli eccessi dei cosiddetti subprime degli ultimi anni, quando gli Usa (pur con una minima crescita di popolazione immigrata) dovettero sostenere con una crescita del Pil la ripresa delle spese militari post terrorismo dei primi anni del Duemila.
Chi va vituperato pertanto? Il banchiere disonesto, come si cerca di insinuare, o il politico superficiale suggestionato dall' economista che lo convince ad aumentare nel suo mandato la crescita del Pil, diminuendo la crescita della popolazione o l' intellettuale supponente che si infastidisce se c' è coda in autostrada o al supermercato e divulga tesi insostenibili? E dove erano i responsabili della tenuta morale della società che dovevano spiegare dottrina e si occupavano invece di sociopolitica?
Dove stanno ora le soluzioni? Io credo stiano anche, o soprattutto, nella soluzione educativa e nella forza della famiglia. Anzitutto sono convinto che l' uomo sia stato creato affinché pensasse prima che lavorasse. Negli ultimi decenni questa capacità di pensare è notevolmente diminuita avendo sostituito i modelli di apprendimento che erano propri della nostra cultura, da «sapere il perché» a «sapere come». È evidente che il modello «sapere come» è più produttivo, a breve, ma alla lunga produce schiavitù di pensiero e ritarda le capacità immaginative e reattive di progettazione di un futuro adeguato alla nostra vocazione. Si ritorni pertanto a insegnare e apprendere il «perché» prima del «come». La forza della famiglia non è solo nella capacità di produrre effetti sociali unici, perché dà fini e identità agli individui, responsabilizza e propone aspirazioni motivate, consapevoli e soggettive. La forza sta anche nel suo valore economico, poiché la famiglia produce impegno, stimolo a realizzare azioni responsabili e finalizzate al sostegno e alla crescita della famiglia stessa. Stimola la produzione, il risparmio, l' investimento, la creazione di ricchezza. Produce stimoli competitivi nell' educazione, formazione, sostegno dei figli, assistenza al suo interno, creando così un valore sostenibile per la società, un motore di produzione di talenti e ricchezza qualitativa e quantitativa. Incoraggiando la ripresa a sposarsi e a fare figli - anche se l' avvenire sembrasse scoraggiante (basta confidare nella grazia e impegnarsi) - avvia immediatamente un ciclo anche economico.
La famiglia non solo produce crescita reale, ma avvia quattro anime economiche che le sono tanto proprie quanto misconosciute: la famiglia quale produttore di reddito, di risparmio, di investimento (in capitale umano soprattutto), di ridistributore di reddito al suo interno. Oggi che le idee per la ripresa mancano, il progetto famiglia ritorna a essere fondamentale. I Paesi preoccupati della non crescita della natalità hanno stabilito fondi a supporto, stanno progettando in tal modo una ripresa dell' economia a medio termine. La Francia ha stanziato qualche tempo fa un 2,5% del Pil, la Germania un 3,2%, la Scandinavia un 4%. L' Italia un 1%...
Se è vero che la famiglia è stata inventata dal cristianesimo, solo questo basterebbe a renderlo benemerito per i valori economici creati nei secoli. È evidente che per credere e realizzare tutto ciò, la maggioranza dovrebbe avere una visione antropologica comune dell' uomo. Però così non è. C' è chi vede nell' uomo una creatura di Dio e chi lo vede cancro dell' universo, altri si limitano a vederlo come puro mezzo di produzione e consumo. Curiosamente i detrattori della dignità della persona vorrebbero oggi un ridimensionamento dello sviluppo che renderebbe impossibile assorbire i costi fissi della nostra struttura economica e sociale e fare investimenti tecnologici. Decrescere oggi significherebbe produrre un sistema dove si devono pagare più tasse, inutilmente. Detti profeti sono gli stessi che scoraggiavano a fare figli. Reagiamo. (Gotti Tedeschi Ettore)

18.11.11

LE DIFFICOLTÀ DEL MOMENTO ATTUALE

Dal discorso del prof. Mario Monti al Senato:

Il Governo riconosce di essere nato per affrontare in spirito costruttivo e unitario una situazione di seria emergenza. Vorrei usare questa espressione: Governo di impegno nazionale. Governo di impegno nazionale significa assumere su di sé il compito di rinsaldare le relazioni civili e istituzionali, fondandole sul senso dello Stato. È il senso dello Stato e la forza delle istituzioni che evitano la degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell'appartenenza alla comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo. Ed io ho inteso, fin dal primo momento, il mio servizio allo Stato non certo con la supponenza di chi, considerato tecnico, venga per dimostrare un'asserita superiorità della tecnica rispetto alla politica; al contrario, spero che il mio Governo e io potremo, nel periodo che ci è messo a disposizione, contribuire, in modo rispettoso e con umiltà, a riconciliare maggiormente - permettetemi di usare questa espressione - i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica.
Le difficoltà del momento attuale. L'Europa sta vivendo i giorni più difficili dagli anni del secondo dopoguerra. Il progetto che dobbiamo alla lungimiranza di grandi uomini politici, quali furono Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e - sottolineo in modo particolare - Alcide De Gasperi, e che per sessant'anni abbiamo perseguito, passo dopo passo, dal Trattato di Roma - non a caso di Roma - all'Atto unico, ai Trattati di Maastricht e di Lisbona, è sottoposto alla prova più grave dalla sua fondazione.
Un fallimento non sarebbe solo deleterio per noi europei. Farebbe venire meno la prospettiva di un mondo più equilibrato in cui l'Europa possa meglio trasmettere i suoi valori ed esercitare il ruolo che ad essa compete, in un mondo sempre più bisognoso di una governance multilaterale efficace.
Non illudiamoci che il progetto europeo possa sopravvivere se dovesse fallire l'Unione monetaria. La fine dell'euro disgregherebbe il mercato unico, le sue regole, le sue istituzioni. Ci riporterebbe là dove l'Europa era negli anni Cinquanta.
La gestione della crisi ha risentito di un difetto di governance e, in prospettiva, dovrà essere superata con azioni a livello europeo. Ma solo se riusciremo ad evitare che qualcuno, con maggiore o minore fondamento, ci consideri l'anello debole dell'Europa, potremo ricominciare a contribuire a pieno titolo all'elaborazione di queste riforme europee. Altrimenti, ci ritroveremo soci di un progetto che non avremo contribuito ad elaborare, ideato da Paesi che, pur avendo a cuore il futuro dell'Europa, hanno a cuore anche i lori interessi nazionali, tra i quali non c'è necessariamente un'Italia forte.
Il futuro dell'euro dipende anche da ciò che farà l'Italia nelle prossime settimane. Anche: non solo, ma anche. Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico. Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale ma durevole del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Quel rapporto è oggi al medesimo livello al quale era vent'anni fa, ed è il terzo più elevato tra i Paesi dell'OCSE.
Per raggiungere questo obiettivo, intendiamo far leva su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità.
Nel ventennio trascorso l'Italia ha fatto molto per riportare in equilibrio i conti pubblici, sebbene alzando l'imposizione fiscale su lavoratori dipendenti e imprese, più che riducendo in modo permanente la spesa pubblica corrente. Tuttavia, quegli sforzi sono stati frustrati dalla mancanza di crescita. L'assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti. Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio, sulla discesa del rapporto tra debito e PIL. Ma non saremo credibili, neppure nel perseguimento e nel mantenimento di questi obiettivi, se non ricominceremo a crescere.
Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee. Non c'è nessuna originalità europea nell'aver individuato ciò che l'Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene fosse necessario per la nostra crescita.
Non vediamo i vincoli europei come imposizioni. Anzitutto, permettetemi di dire, e me lo sentirete affermare spesso, che non c'è un "loro" e un "noi". L'Europa siamo noi! E sono per lo più, quelli che poi ci vengono, in un turbinio di messaggi, di lettere e di deliberazioni dalle istituzioni europee, provvedimenti volti a rendere meno ingessata l'economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita, migliorare l'efficienza dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, favorire l'ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese.
L'obiezione che spesso si oppone a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per la crescita. È un'obiezione dietro la quale spesso si maschera - riconosciamolo - chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla crescita nel breve periodo (che è vero che non hanno), ma perché si teme che queste misure ledano gli interessi di qualcuno. Ma, evidentemente, più tardi si comincia, più tardi arriveranno i benefici delle riforme. Ma, soprattutto, le scelte degli investitori che acquistano i nostri titoli pubblici sono guidate sì da convenienze finanziarie immediate, ma - mettiamocelo in testa - sono guidate anche dalle loro aspettative su come sarà l'Italia fra dieci o vent'anni, quando scadranno i titoli che acquistano oggi.
Quindi, non c'è iato tra le cose che dobbiamo o fare oggi o avviare oggi, anche se avranno effetti lontani, perché anche gli investitori, che ci premiano o ci puniscono, agiscono oggi, ma guardano anche agli effetti lontani.
Riforme che hanno effetti anche graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze positive sulla crescita stessa.
I sacrifici necessari per ridurre il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà l'equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia - mi auguro - sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della popolazione, a condizioni ben più dure.
La crisi che stiamo vivendo è internazionale: questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad evitare demonizzazioni.
È internazionale, ma l'Italia ne ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine del prossimo anno il prodotto interno lordo dell'Italia sarebbe ancora quattro punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la stessa data, l'area dell'euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il traguardo di riportarsi al livello precrisi nell'anno in corso.
La relativa debolezza della nostra economia precede l'avvio della crisi. Tra il 2001 e il 2007 il prodotto italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell'area dell'euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona euro.
La crisi ha colpito più duramente i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l'Unione europea fino al 2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età 15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali; in Italia, di 7,6 punti percentuali.
Il nostro Paese rimane caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità. I problemi del Mezzogiorno vanno affrontati non nella logica del chiedere di più, ma di una razionale modulazione delle risorse. Esiste anche una questione settentrionale: costo della vita, delocalizzazione, nuove povertà, bassa natalità. Il riequilibrio di bilancio, le riforme strutturali e la coesione territoriale richiedono piena e leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali. Occorre riconoscere il valore costituzionale delle autonomie speciali, nel duplice binario della responsabilità e della reciprocità.
Sono consapevole che sarebbe un'ambizione eccessiva da parte mia e da parte nostra pretendere di risolvere in un arco di tempo limitato, qual è quello che ci separa dalla fine di questa legislatura, problemi che hanno origini profonde e che sono radicati in consuetudini e comportamenti consolidati. Ciò che ci prefiggiamo di fare è impostare il lavoro, mettendo a punto gli strumenti che permettano ai Governi che ci succederanno di proseguire un processo di cambiamento duraturo.
Per questo il programma che vi sottopongo oggi si compone di due parti, che hanno obiettivi e orizzonti temporali diversi. Da un lato, vi è una serie di provvedimenti per affrontare l'emergenza, assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, restituire fiducia nelle capacità del nostro Paese di reagire e sostenere una crescita duratura ed equilibrata. Dall'altro lato, si tratta di delineare con iniziative concrete un progetto per modernizzare le strutture economiche e sociali, in modo da ampliare le opportunità per le imprese, i giovani, le donne e tutti i cittadini, in un quadro di ritrovata coesione sociale e territoriale.
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Un innalzamento significativo del tasso di crescita è condizione essenziale non solo del riequilibrio finanziario, ma anche del progresso civile e sociale. In tal senso, una strategia di rilancio della crescita non può prescindere da un'azione determinata ed efficace di contrasto alla criminalità organizzata e a tutte le mafie, che vada a colpire gli interessi economici delle organizzazioni e le loro infiltrazioni nell'economia legale.
Il risanamento della finanza pubblica e il rilancio della crescita contribuiranno a rafforzare la posizione dell'Italia in Europa e, più in generale, la nostra politica estera. Vocazione europeistica, solidarietà atlantica, rapporti con i nostri partner strategici, apertura dei mercati, sicurezza nazionale e internazionale rimarranno i cardini di tale politica.
La gravità della situazione attuale richiede una risposta pronta e decisa nella creazione di condizioni favorevoli alla crescita, nel perseguimento del pareggio di bilancio, con interventi strutturali e con un'equa distribuzione dei sacrifici.
Il tentativo che ci proponiamo di compiere, onorevoli senatori, e che vi chiedo di sostenere, è difficilissimo. E' difficilissimo, sennò ho il sospetto che non mi troverei qui oggi. I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizioni e di scontri nella politica nazionale.
Se sapremo cogliere insieme questa opportunità per avviare un confronto costruttivo su scelte e obiettivi di fondo, avremo l'occasione di riscattare il Paese e potremo ristabilire la fiducia nelle sue istituzioni. “Il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di Governo, lo snodo decisivo per il rilancio e il riscatto della vita democratica. Al Parlamento vanno riconosciute e rafforzate, attraverso l'azione quotidiana di ciascuno di noi, dignità, credibilità e autorevolezza. Da parte mia, da parte nostra, vi sarà sempre una chiara difesa del ruolo di entrambe le Camere quali protagoniste del pubblico dibattito.

8.11.11

7 NOVEMBRE

                             7 novembre, anniversario dell’inizio di un regime «sconosciuto all’umanità», perché prima di esso, come scrive il grandissimo storico ex comunista François Furet, «nessuno Stato al mondo s’è mai dato l’obiettivo di uccidere i propri cittadini o di asservirli», come invece ha fatto per settant’anni l’URSS. Nessuno Stato al mondo prima aveva recintato il proprio territorio ed i propri domini non per impedire invasioni, ma per impedire evasioni, così costituendosi come «prigione dei popoli» (secondo Alain Besançon, nell’URSS il GULag era il campo di concentramento a regime duro, il resto del territorio quello a regime ordinario). Mai prima, sostiene lo storico Bruce Lincoln, «una società […] aveva ucciso i propri componenti con tanta disinvoltura e per ragioni così diverse». Tutto questo perché, dice l’oppositore al regime sovietico e scrittore Vladimir Maksimov, «senza esserne cosciente, l’uomo si era levato, per la prima volta nella storia, non contro le circostanze sociali, ma contro se stesso, contro la propria natura». Altro che «generosa utopia»: l’utopia, proprio in quanto tale, è perversa e nemica dell’uomo, come la storia del comunismo ha dimostrato e dimostra, se è vero, come è vero, che mentre l’URSS è finita, ancora in Cina, in Corea del Nord, a Cuba, in Viet Nam, in Birmania, in Bielorussia, in Venezuela con il «socialismo del XXI secolo, il comunismo terrorizza, affama, imprigiona, uccide…