Dal discorso del prof. Mario Monti al Senato:
Il Governo riconosce di essere
nato per affrontare in spirito costruttivo e unitario una situazione di seria
emergenza. Vorrei usare questa espressione: Governo di impegno nazionale.
Governo di impegno nazionale significa assumere su di sé il compito di
rinsaldare le relazioni civili e istituzionali, fondandole sul senso dello
Stato. È il senso dello Stato e la forza delle istituzioni che evitano la
degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell'appartenenza alla
comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo. Ed io ho
inteso, fin dal primo momento, il mio servizio allo Stato non certo con la
supponenza di chi, considerato tecnico, venga per dimostrare un'asserita
superiorità della tecnica rispetto alla politica; al contrario, spero che il
mio Governo e io potremo, nel periodo che ci è messo a disposizione,
contribuire, in modo rispettoso e con umiltà, a riconciliare maggiormente -
permettetemi di usare questa espressione - i cittadini e le istituzioni, i
cittadini alla politica.
Le difficoltà del momento
attuale. L'Europa sta vivendo i giorni più difficili dagli anni del secondo
dopoguerra. Il progetto che dobbiamo alla lungimiranza di grandi uomini
politici, quali furono Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e -
sottolineo in modo particolare - Alcide De Gasperi, e che per sessant'anni
abbiamo perseguito, passo dopo passo, dal Trattato di Roma - non a caso di Roma
- all'Atto unico, ai Trattati di Maastricht e di Lisbona, è sottoposto alla
prova più grave dalla sua fondazione.
Un fallimento non sarebbe solo
deleterio per noi europei. Farebbe venire meno la prospettiva di un mondo più
equilibrato in cui l'Europa possa meglio trasmettere i suoi valori ed
esercitare il ruolo che ad essa compete, in un mondo sempre più bisognoso di
una governance multilaterale efficace.
Non illudiamoci che il progetto
europeo possa sopravvivere se dovesse fallire l'Unione monetaria. La fine
dell'euro disgregherebbe il mercato unico, le sue regole, le sue istituzioni.
Ci riporterebbe là dove l'Europa era negli anni Cinquanta.
La gestione della crisi ha
risentito di un difetto di governance e, in prospettiva, dovrà essere
superata con azioni a livello europeo. Ma solo se riusciremo ad evitare che
qualcuno, con maggiore o minore fondamento, ci consideri l'anello debole
dell'Europa, potremo ricominciare a contribuire a pieno titolo all'elaborazione
di queste riforme europee. Altrimenti, ci ritroveremo soci di un progetto che
non avremo contribuito ad elaborare, ideato da Paesi che, pur avendo a cuore il
futuro dell'Europa, hanno a cuore anche i lori interessi nazionali, tra i quali
non c'è necessariamente un'Italia forte.
Il futuro dell'euro dipende anche
da ciò che farà l'Italia nelle prossime settimane. Anche: non solo, ma anche.
Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico.
Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale
ma durevole del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Quel
rapporto è oggi al medesimo livello al quale era vent'anni fa, ed è il terzo
più elevato tra i Paesi dell'OCSE.
Per raggiungere questo obiettivo,
intendiamo far leva su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità.
Nel ventennio trascorso l'Italia
ha fatto molto per riportare in equilibrio i conti pubblici, sebbene alzando
l'imposizione fiscale su lavoratori dipendenti e imprese, più che riducendo in
modo permanente la spesa pubblica corrente. Tuttavia, quegli sforzi sono stati
frustrati dalla mancanza di crescita. L'assenza di crescita ha annullato i
sacrifici fatti. Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio,
sulla discesa del rapporto tra debito e PIL. Ma non saremo credibili, neppure
nel perseguimento e nel mantenimento di questi obiettivi, se non ricominceremo
a crescere.
Ciò che occorre fare per
ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori centri di
ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse
venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle
istituzioni europee. Non c'è nessuna originalità europea nell'aver individuato
ciò che l'Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema
italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene
fosse necessario per la nostra crescita.
Non vediamo i vincoli europei
come imposizioni. Anzitutto, permettetemi di dire, e me lo sentirete affermare
spesso, che non c'è un "loro" e un "noi". L'Europa siamo
noi! E sono per lo più, quelli che poi ci vengono, in un turbinio di messaggi,
di lettere e di deliberazioni dalle istituzioni europee, provvedimenti volti a
rendere meno ingessata l'economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e
poi indurne la crescita, migliorare l'efficienza dei servizi offerti dalle
amministrazioni pubbliche, favorire l'ingresso nel mondo del lavoro dei giovani
e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese.
L'obiezione che spesso si oppone
a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per
la crescita. È un'obiezione dietro la quale spesso si maschera - riconosciamolo
- chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla
crescita nel breve periodo (che è vero che non hanno), ma perché si teme che
queste misure ledano gli interessi di qualcuno. Ma, evidentemente, più tardi si
comincia, più tardi arriveranno i benefici delle riforme. Ma, soprattutto, le
scelte degli investitori che acquistano i nostri titoli pubblici sono guidate
sì da convenienze finanziarie immediate, ma - mettiamocelo in testa - sono
guidate anche dalle loro aspettative su come sarà l'Italia fra dieci o
vent'anni, quando scadranno i titoli che acquistano oggi.
Quindi, non c'è iato tra le cose
che dobbiamo o fare oggi o avviare oggi, anche se avranno effetti lontani,
perché anche gli investitori, che ci premiano o ci puniscono, agiscono oggi, ma
guardano anche agli effetti lontani.
Riforme che hanno effetti anche
graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono
riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze
positive sulla crescita stessa.
I sacrifici necessari per ridurre
il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà
l'equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia - mi auguro -
sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità
significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti
relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma
anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se
non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della
crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della
popolazione, a condizioni ben più dure.
La crisi che stiamo vivendo è
internazionale: questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad
evitare demonizzazioni.
È internazionale, ma l'Italia ne
ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine
del prossimo anno il prodotto interno lordo dell'Italia sarebbe ancora quattro
punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la
stessa data, l'area dell'euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la
perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il
traguardo di riportarsi al livello precrisi nell'anno in corso.
La relativa debolezza della
nostra economia precede l'avvio della crisi. Tra il 2001 e il 2007 il prodotto
italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell'area
dell'euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono
deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con
altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona
euro.
La crisi ha colpito più duramente
i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l'Unione europea fino al
2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età
15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali; in Italia, di 7,6 punti
percentuali.
Il nostro Paese rimane
caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa
crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale:
infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità. I
problemi del Mezzogiorno vanno affrontati non nella logica del chiedere di più,
ma di una razionale modulazione delle risorse. Esiste anche una questione
settentrionale: costo della vita, delocalizzazione, nuove povertà, bassa
natalità. Il riequilibrio di bilancio, le riforme strutturali e la coesione
territoriale richiedono piena e leale collaborazione tra i diversi livelli
istituzionali. Occorre riconoscere il valore costituzionale delle autonomie speciali,
nel duplice binario della responsabilità e della reciprocità.
Sono consapevole che sarebbe
un'ambizione eccessiva da parte mia e da parte nostra pretendere di risolvere
in un arco di tempo limitato, qual è quello che ci separa dalla fine di questa
legislatura, problemi che hanno origini profonde e che sono radicati in
consuetudini e comportamenti consolidati. Ciò che ci prefiggiamo di fare è
impostare il lavoro, mettendo a punto gli strumenti che permettano ai Governi
che ci succederanno di proseguire un processo di cambiamento duraturo.
Per questo il programma che vi
sottopongo oggi si compone di due parti, che hanno obiettivi e orizzonti
temporali diversi. Da un lato, vi è una serie di provvedimenti per affrontare
l'emergenza, assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, restituire
fiducia nelle capacità del nostro Paese di reagire e sostenere una crescita
duratura ed equilibrata. Dall'altro lato, si tratta di delineare con iniziative
concrete un progetto per modernizzare le strutture economiche e sociali, in
modo da ampliare le opportunità per le imprese, i giovani, le donne e tutti i
cittadini, in un quadro di ritrovata coesione sociale e territoriale.
..............
Un innalzamento significativo del
tasso di crescita è condizione essenziale non solo del riequilibrio
finanziario, ma anche del progresso civile e sociale. In tal senso, una
strategia di rilancio della crescita non può prescindere da un'azione
determinata ed efficace di contrasto alla criminalità organizzata e a tutte le
mafie, che vada a colpire gli interessi economici delle organizzazioni e le
loro infiltrazioni nell'economia legale.
Il risanamento della finanza
pubblica e il rilancio della crescita contribuiranno a rafforzare la posizione
dell'Italia in Europa e, più in generale, la nostra politica estera. Vocazione
europeistica, solidarietà atlantica, rapporti con i nostri partner strategici,
apertura dei mercati, sicurezza nazionale e internazionale rimarranno i cardini
di tale politica.
La gravità della situazione
attuale richiede una risposta pronta e decisa nella creazione di condizioni
favorevoli alla crescita, nel perseguimento del pareggio di bilancio, con
interventi strutturali e con un'equa distribuzione dei sacrifici.
Il tentativo che ci proponiamo di
compiere, onorevoli senatori, e che vi chiedo di sostenere, è difficilissimo.
E' difficilissimo, sennò ho il sospetto che non mi troverei qui oggi. I margini
di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della
Repubblica, dopo anni di contrapposizioni e di scontri nella politica
nazionale.
Se sapremo cogliere insieme
questa opportunità per avviare un confronto costruttivo su scelte e obiettivi
di fondo, avremo l'occasione di riscattare il Paese e potremo ristabilire la
fiducia nelle sue istituzioni. “Il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di Governo, lo snodo decisivo per il rilancio e il riscatto della vita democratica. Al Parlamento vanno riconosciute e rafforzate, attraverso l'azione quotidiana di ciascuno di noi, dignità, credibilità e autorevolezza. Da parte mia, da parte nostra, vi sarà sempre una chiara difesa del ruolo di entrambe le Camere quali protagoniste del pubblico dibattito.